Loretto Rafanelli
Incontro sul libro di Leone Piccioni

Le parole di Montale

“Ossi di seppia”: gli impervi passaggi, i gorghi, gli enigmi poetici e linguistici, i vortici esistenziali affrontati dal critico letterario nelle lezioni tenute allo IULM. E domani al Gabinetto Vieusseux di Firenze si proietta anche l’intervista fatta da Piccioni al poeta in occasione dei suoi 70 anni

Domani, 30 ottobre, a Firenze, alle 17,30, al Gabinetto Vieusseux (Piazza Strozzi 1), Marino Biondi, Giuseppe Conte, Giuseppe Grattacaso, Sivia Zoppi Garampi presentano il libro di Leone Piccioni,“Com’è tutta la vita e il suo travaglio. Lezioni su ‘Ossi di seppia’ di Eugenio Montale” (Libreria Dante & Descartes). Dopo gli interventi, grazie alla disponibilità delle Teche Rai, sarà proiettata l’Intervista a Eugenio Montale che Leone Piccioni realizzò per la Rai nel 1966. Del libro torna a parlare nell’articolo che pubblichiamo Loretto Rafanelli.

L’aspro, spigoloso, profondissimo e sfuggente Montale di Ossi di seppia, ci appare più prossimo, nonostante l’impervia scalata ai suoi versi, dopo avere letto la critica puntuale e illuminante di Leone Piccioni nel prezioso libro Com’è tutta la vita e il suo travaglio (Libreria Dante & Descartes). Si tratta di lezioni sulla prima raccolta di Montale, che il grande critico ha tenuto presso lo IULM (Istituto Universitario di Lingue Moderne) nell’anno accademico 1979-1980, nel corso della sua attività di docenza presso l’Università milanese. Un corpo a corpo con quei versi che hanno formato intere generazioni di poeti e affascinato numerosi lettori, perché qui sicuramente c’è uno dei vertici della poesia del Novecento. Piccioni, il riconosciuto ‘primo’ critico di Ungaretti, dimostra con queste lezioni di non essersi mai fermato a un solo autore, ma di aver ‘frequentato’ tanta poesia (Luzi, Betocchi, Parronchi, Caproni, ecc.), come peraltro la narrativa, senza mai seguire esclusivi schemi, passando da Bilenchi a Pea, da Gadda a Pavese, da Parise a Cassola, fedele solo all’esercizio libero della critica, attento al valore dello scrittore, scevro da ideologismi, così pesantemente presenti nel Novecento letterario italiano. Così emerge nel libro su Montale «una lettura in cui prevale il valore etico dell’opera letteraria… offrendone un’interpretazione inconsueta e affascinante» come afferma Giuseppe Grattacaso nella postfazione.

Di Ungaretti ebbe a dire tanto, attraversando non solo i testi ma pure la vita, dati i stretti rapporti, ma poi anche di Montale non sono poche le testimonianze, oltre agli studi. Ne ricordiamo in particolare una che egli riporta nel libro e che vogliamo raccontarvi direttamente con le sue parole e che sicuramente emoziona: «… mi recavo spesso da lui la sera, finite le lezioni, anche quando erano state “lezioni montaliane”. Lo trovavo seduto in poltrona con un plaid sulle gambe, un po’ infreddolito, con la fedele Gina accanto che da molto tempo lo seguiva. Una volta dissi a Montale che nel pomeriggio avevo letto e commentato con i ragazzi il frammento bellissimo “Spesso il male di vivere ho incontrato”. Montale mi chiese se sapevo a memoria quella poesia e io gli dissi di sì; allora mi chiese di dirla insieme ad alta voce come in un coro, un coro che fu commovente e toccante. E vidi – oh sorpresa! – che Montale piangeva».

Già in Ossi di seppia appare il meglio di Montale, soprattutto emerge, come dice Piccioni, un preciso «senso di autocontrollo… nella vita e nell’opera, di stare attento a non passare mai il segno di un eccesso di commozione o di confidenza, che poteva portarlo a delle forme di accademia, di espressione retorica, di espressione entusiastica o esclamativa… Tutta l’opera di Montale, con tutto il senso e l’importanza che ha, con la necessità che ha di momento in momento, è un’opera, appunto, vigilata». In questo, innanzitutto, sta a mio avviso la lezione di Montale. Chiaro quindi che se questa è la premessa, conseguente sarà che il poeta sia infine «un poeta avaro, un poeta lento, un poeta che scrive e trascrive, medita e ri-medita». Altro indubitabile insegnamento per i poeti a venire. Una poesia, quella di Montale, che non ha fine e dà sempre stupore, ciò «perché si riferisce a situazioni e a fatti che riguardano tuttora la nostra vita, la nostra partecipazione alla vita, ecco allora il segno della sua giovinezza, della sua permanente vitalità», dice Piccioni.

L’analisi avviene testo dopo testo, a iniziare da “Meriggiare pallido assorto…”, dove Piccioni rileva che la «forma d’infinito è già una forma poetica nuovissima…» inoltre «è una poesia costellata di parole “non poetiche”, con l’utilizzazione di un linguaggio che è esattissimo anche se insolito e infatti bisogna leggere Montale con il vocabolario alla mano perché usa termini scientifici per indicare i nomi delle piante, dei fiori, degli animali… Peraltro Montale non vuole ricorrere se non a cose concrete».

Altro discorso significativo affrontato da Piccioni è quello sull’importanza della poesia per Montale, prendendo spunto da “Non chiederci la parola…”, e allo stesso tempo ritornando all’affermazione del poeta secondo cui la poesia è inutile e non ha rapporti con l’umanità e la società. Provocazioni evidenti, Montale gioca a depistare e a sconcertare. Il critico ne dà una profonda e ampia interpretazione: «Naturalmente quando Montale dice queste cose, c’è una parte paradossale e c’è una parte vera. Cioè egli intende dire che il poeta non può pensare di influire immediatamente, con la propria poesia, sulla società. E non è compito della poesia influire su quelli che sono giusti interessi di carattere politico, sociale e di impegno che hanno a che vedere con lo svolgimento della vita quotidiana, della vita politica e che hanno perciò necessità di impegni e modificazioni immediate. Se la poesia agisse per volere modificare l’oggi, avrebbe un’importanza molto minore di quella che invece la politica o la sociologia possono avere, e si toglierebbe quella che invece è la grande forza della poesia, che consente alla poesia di vivere poi attraverso i secoli: perderebbe di vista quelle che sono certe caratteristiche immutabili dell’essere umano, quelle di carattere propriamente sentimentale e intellettuale ed esistenziale che sempre sussistono, anche al mutare delle condizioni sociali».

Ma sarebbe fuorviante pensare a un Montale estraneo alla vita, semplicemente, «la vita è fatta di mali… tanto che la critica ha parlato di un approdo di Montale a una sorta di religiosità laica: di ‘teologia’ ha parlato Contini. È una religiosità che come Montale stesso ha voluto precisare in una intervista, è di tipo manicheo». Eppure si sbaglierebbe a pensare a un Montale filosofico per quanto sia profondo il suo pensiero, piuttosto partendo da un suo verso (“Ma sarà troppo tardi, ed io me ne andrò zitto/ tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto”), egli ha, dice Piccioni, «questa capacità di entrare all’interno delle cose però senza mai fare della poesia sapiente, dotta, filosofica, ma riuscendo sempre, anche quando i concetti sono certamente dominanti, a mantenere quella sua capacità d’invenzione. E questa forza di atmosfera, che sopravvive alla prima lettura, indipendentemente dal cominciare un discorso riflessivo sulla poesia, ha la capacità di prenderti e di commuoverti prima ancora che tu ne abbia capito il senso preciso, il significato».

E a volte basta un nulla per muovere un universo, come il “Debole sistro al vento…”, questo strumento antico che agitato aveva un suono come un tintinnio, quasi un nulla, ebbene «questo rumore fa riflettere, e la riflessione mette in movimento quello che è di più nascosto e di più profondo in noi purché si sfugga al torpore, che ci fa capire che il nostro rapporto col mondo, così com’è, si regge appena». In “Cigola la carrucola del pozzo…” è il discorso della memoria che emerge, e che scompare; Piccione affronta un tema assai discusso, quello della ‘poetica della memoria’, questione che Montale a differenza di altri autori del passato ma anche di oggi, che ritengono che la poesia debba essere essenzialmente un rammentare, invece ‘capovolge’ come lo stesso Piccioni rileva: «la sua non è affatto una poesia di memoria, anzi è una poesia che considera, seppur con strazio, con immenso dolore, la memoria come una cosa che non possa dare apporto alla vita dell’uomo, non si può vivere solamente nell’idolatria della memoria».

Quanti spunti emergono ancora da questo libro, quanta strada si fa nel comprendere gli impervi passaggi montaliani, che paiono profondi gorghi, veri enigmi poetici e linguistici, veri vortici esistenziali. La portata di queste lezioni montaliane le evidenzia bene Giuseppe Conte nella prefazione: «Il testo di Piccioni… è una via per leggere Montale fuori da ogni montalismo di maniera…. e permette di cogliere l’essenziale, per esempio il nesso indissolubile che in Montale lega il paesaggio, il piano simbolico, il ragionamento morale e gli stati d’animo… il metodo di Piccioni è la critica come vita… i testi vengono chiariti nella loro sostanza umana, prima ancora che stilistica… meno sugli elementi linguistici che su quelli etici, storici, personali». Che è, aggiungo, un ritrovarsi nella vena più autentica e profonda della poesia.

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