Alessandro Boschi
Il nostro inviato al Lido

Ultima Sceneggiata

Sangue, criminalità, amore, canzoni, passioni: la ricetta di "Ammore e Malavita” è proprio quella della sceneggiata. Ma rimaneggiata e attualizzata (benissimo) dai Manetti Bros. Con l'aiuto di un Carlo Buccirosso perfetto

Lo confessiamo: appena seduti in sala Darsena per la proiezione di Ammore e Malavita dei Manetti Bros, presentato in concorso  stamattina, la prima cosa che abbiamo controllato, come peraltro facciamo sempre, è stata la durata: 133 minuti, quasi due ore e un quarto. Abbiamo temuto, non ve lo neghiamo. Perché a noi i due ci stanno proprio simpatici, e la paura era che un musical, perché di questo sapevamo trattarsi, non avrebbe retto l’urto. Magari qualcuno avrebbe potuto dire: non vi è piaciuto Aronofsky? Bene, beccatevi questi! Chissà perché a volte ci vengono in mente questi esempi. Noi, Ammore e Malavita invece ce lo siamo beccato tutto, e anche molto volentieri. 

Antonio e Marco, i Manetti in questione, romani di nascita ma oramai napoletani d’adozione, hanno saputo calibrare bene le parti cantate, che poi sono i dialoghi centrali dei personaggi, con le scene di azione e la performance degli attori, ognuno dei quali ha almeno una scena madre. E vorremmo vedere: come esclamava Lello Arena alias Michele Giuffrida alla fine di No, grazie, il caffè mi rende nervoso: «Ma perché, che tieni a dicere della sceneggiata?». La recitazione, consapevolmente sopra le righe, contribuisce a creare una atmosfera rassicurante, che accarezza lo spettatore e che fa immaginare il dietro le quinte dove tutti si abbracciano e si divertono. Che poi il più bravo sia, per distacco, Carlo Buccirosso, non è una novità. Il suo don Vincenzo “o’ re do pesce” è da incorniciare, anche perché sorretto da dialoghi frizzanti, divertenti e sboccati al punto giusto. D’altra parte, un personaggio che viene colpito nelle parti basse posteriori è automaticamente autorizzato a proferire tutto quello che gli passa per la testa.

La storia è quella di un boss, Buccirosso appunto, che insieme alla consorte interpretata da Claudia Gerini, altra napoletana d’adozione, vuole uscire dalla scena e quindi si fa passare per morto. Ma uno dei suoi fedeli, Ciro, interpretato da Giampaolo Morelli, manderà tutto all’aria per amore. Ovviamente. Il film dicevamo è edulcorato ma non troppo, tanto è vero che non si esita ad uccidere a sangue freddo un sosia del boss per lo scambio di cadavere. A proposito, la consorte del boss stesso, prende spunto per i suoi loschi traffici, ma anche per la quotidianità, dai film e dalle telenovelas che trangugia senza sosta. Curiosamente però, il film che sembra davvero chiamato in causa è Johnny Stecchino, al quale però non si fa mai cenno.

Dal nostro punto di vista il direttore Alberto Barbera bene ha fatto a mettere in concorso Ammore e Malavita. Che poi questo possa nuocere al film, vedi Piuma di Roan Johnson anno scorso pure in concorso, è un altro discorso. 

Un’ultima cosa, che forse ha senso solo per contiguità di genere. Il neo, unico particolare che distingue il boss dal suo sosia, ci ha ricordato quello di Turi Ferro in Mimì metallurgico ferito nell’onore, che rappresentava l’immanenza della malavita, della mafia in quel caso. Quindi ci piace immaginare che i due fratelli cinefili abbiano in qualche maniera voluto ulteriormente e in modo raffinato prendere in giro quel mondo che hanno rappresentato in maniera così divertente. Spargendo comunque ettolitri di sangue, finto o vero che fosse.

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