Valerio Apice
Diario dalla tragedia messicana

Se Pulcinella trema

Un attore/Pulcinella si è ritrovato nel cuore del terribile terremoto di Città del Messico e ha riconsiderato il ruolo del teatro, della vita e della morte. Ecco la sua testimonianza

Nel 1981 avevo sette anni e il terremoto dell’Irpinia ha segnato la mia famiglia: i miei genitori hanno perso la casa ma non ci sono stati morti in famiglia. Quando ho iniziato a fare teatro sono sempre ritornato a quegli attimi in cui a mio padre sono venuti i capelli bianchi, e abbiamo sempre scherzato sul quel bianco quarantenne. Oggi il bianco caratterizza il mio costume di scena e in quel bianco ritrovo la purezza della mia infanzia. Il 18 settembre 2017 ho presentato a Città del Messico una conferenza-spettacolo dal titolo Pulcinella in viaggio e il 19 c’è stato un forte terremoto che ha sospeso il mio giudizio sul teatro. L’ha addirittura distrutto, ma mi ha fatto riconsiderare lo spettacolo, il qui e ora, come il senso profondo del mio mestiere.

Sono di quella generazione che ha creduto al teatro che si fa sui palcoscenici all’italiana, poi ha letto Grotowski e ha pensato che il corpo dovesse essere il tempio da abitare e quindi, con l’Odin Teatret (con cui collaboro da circa venti anni), che il gruppo potesse dare al teatro la dignità e la sopravvivenza. Ma quando giunge un terremoto, ti distrugge tutte (o quasi) le certezze; quando non ti uccide definitivamente. Come è successo a quei poveri e sfortunati bambini nella scuola crollata a Città del Messico, dei quali è giunta velocissima la notizia a noi che eravamo non lontani dal centro città. Qualcuno dice che siamo troppi, noi esseri umani, e le disgrazie hanno una loro “giustizia”. Io credo che in teatro l’affollamento abbia superato il senso della realtà e credo che chi fa, chi agisce sia come soffocato dalle parole, dai “corsi” sul mestiere e sui percorsi da seguire.

«E rimane una sola immagine: quella del francescano ingenuo, che crede. Crede che esiste una giustizia, crede che questa giustizia può essere applicata in questo mondo, crede che Dio è buono. E allora va: va in Congo per predicare questa giustizia. E quando arriva in Congo vede le piantagioni di gomma, vede i negri con le mani mozzate perché non producono abbastanza gomma, vede i bambini con il tracoma, vede la lebbra. E come può, lui, andare a parlare di provvidenza? come può, lui, ripetere i corsi che ha appreso alla scuola di missionario? Tutti quei corsi che i cardinali e i vescovi che abitano nelle grandi città gli hanno trasmesso? Rimane sul posto. Magari perde la fede, ma rimane sul posto. Sa che non può parlarne, che non è il momento di predicare, ma di fare qualcosa. E poi ritorna, magari per un mese, e incontra i vescovi e i cardinali che discutono, che parlano di che? Di tutti quegli argomenti teologici che ormai non hanno più senso per lui, perché la realtà è di mani tagliate e di profonde ingiustizie e violenze.» (Eugenio Barba in Lo straniero che danza di Tony D’Urso e Ferdinando Taviani – 1977)

La mattina del 19 settembre commentavo con il mio “fratello maggiore”, Claudio La Camera, la serata precedente fatta all’Istituto Dante Alighieri presso l’Auditorium Aldo Cecchetti e già eravamo pronti al laboratorio del 19 pomeriggio presso l’Alta Escuela de las Artes a Coyoacán, nel quartiere di Frida Kahlo, quando a ora di pranzo abbiamo tremato e abbiamo corso. Il suono delle sirene delle autoambulanze, gli elicotteri che volavano sulla città, la mancanza di corrente elettrica, le prime notizie dei crolli, mi hanno fatto dimenticare quello che il mio Pulcinella aveva donato allo spettatore, il rapporto con un pubblico italiano e spagnolo molto denso, la musica dei gesti e i ritmi degli sguardi, le curiosità dei presenti e i complimenti del direttore e dei suoi collaboratori. Il terremoto, ancora una volta, ha dato un senso profondo al mestiere che ho scelto e non è stato un fatto teorico, non mi sono raccontato la storia della maschera che indosso o l’analisi della commedia dell’arte di cui mi sento di raccoglierne una parte d’eredità. Tutti questi pensieri sono crollati come quella scuola a pochi chilometri dalla nostra casa e sono morti come quei poveri bambini cui è stato tolto il futuro. Credo che il teatro debba ritornare più umano e non ricamare il teatro con il teatro.

Avrei voluto parlare di quanto la settimana passata a Città del Messico abbia alimentato la poesia della scena, il viaggio teatrale di Pulcinella dal Milleseicento al Novecento, di come i Pulcinella Silvio Fiorillo, Vincenzo Cammarano, Antonio Petito, Ettore Petrolini, Raffaele Viviani, Salvatore De Muto, Eduardo De Filippo, hanno vissuto nelle mie parole della conferenza e quanto mi ha reso felice l’incontro con gli spettatori e le foto scattate davanti alle statuine del “santo” Cetrulo. Avrei voluto confermare che, dopo venti anni che indosso la maschera, viaggiare fuori dall’Italia vuol dire far volare la tradizione e ritrovarla rinnovata negli occhi di persone che conoscono poco il sistema dispotico che vige in Italia (dove esiste una élite che decide cosa è contemporaneo, di ricerca, tradizionale, insomma cosa è teatro e cosa non è). Spesso anche io rincorro teorie, inseguo i libri dei riformatori del teatro, spero di essere riconosciuto come l’erede dei Pulcinella della storia. Poi il terremoto, quando arriva, ti mette di fronte alla realtà e «la realtà è di mani tagliate e di profonde ingiustizie e violenze».

Ma allora, serve il riconsiderare, ogni volta, la Morte? Un attimo prima che morisse mia madre non ho mai sentito così vivo un ti voglio bene. Serviva che mia madre morisse? E quando Jerzy Grotowski ha “ucciso” lo spettacolo non ho mai sentito così forte il desiderio di fare spettacoli. Sono stati Claudio La Camera e il Teatro Proskenion, in cui sono cresciuto durante un apprendistato accidentato ma unico, che mi hanno condotto al Teatro Laboratorio Isola di Confine in cui mi sento un “maestro” che non dimentica mai di essere stato un bambino… terremotato.

Di questo viaggio a Città del Messico porto impresso nell’animo una reazione ad una frase di Pulcinella che ha introdotto la parte finale della conferenza-spettacolo. Un momento di spettacolo nel qui e ora, un momento di Spettacolo. Ho introdotto i versi della poesia di Totò ‘A Livella, dicendo al pubblico: voi siete un popolo che sa rendere viva la Festa dei Morti.

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