Raoul Precht
Periscopio (globale)

Per Fortini traduttore

Cent'anni fa nasceva Franco Fortini, poeta, critico, intellettuale scomodo. Ma soprattutto grande traduttore alla riscoperta della purezza e dell'autonomia del verso. Da Goethe a Brecht

In questi ultimi tempi ho parlato molto di traduzione, e vorrei concludere questo mini-ciclo di riflessioni sul tema con un ricordo di Franco Fortini, nato il 10 settembre di cent’anni fa a Firenze. In più di mezzo secolo d’attività, fino alla morte avvenuta nel 1994, Fortini è stato uno scrittore a tutto campo: poeta, saggista, critico letterario, o, come diceva lui con parole che oggi sembrano profetiche, «un intellettuale, un letterato, dunque un niente», qualcuno da dimenticare e che anzi sa già di andare incontro a un rapido oblio. Del resto, la consapevolezza dell’errore, del fallimento e dell’inettitudine percorre un po’ tutta la sua poesia, dalle prime prove improntate a un ermetismo subito ripudiato alla breve stagione di uno sperimentalismo antisperimentale, di stampo, semmai, simbolista e surrealista, ai componimenti finali, di sapore ironico e brechtiano.

Ma Fortini è stato anche, e dal mio punto di vista forse soprattutto, un valentissimo traduttore, dall’inglese, dal francese e dal tedesco. Dico “soprattutto” perché è proprio il lavoro metodico e sistematico sui testi altrui, in qualità di traduttore e rielaboratore, che ha influenzato con tutta evidenza le altre identità, in particolare quella di poeta, e non viceversa. Come rilevava Giovanni Raboni in un seminario tenutosi a Milano nel 1996, sarà, per fare un solo esempio, l’incontro da traduttore con la poesia di Brecht a consentire a Fortini di sviluppare quell’attenzione alla struttura e alla costruzione poetica nonché quel tono assertivo e paratattico che erano e restano ancora oggi una rarità nel panorama poetico italiano.

Fortini è stato, per dirla con schiettezza, un traduttore notevolissimo, al quale dobbiamo una pregevole versione del Faust e dei principali testi brechtiani, per tacere delle opere di molti altri autori, quali ad esempio Milton, Baudelaire, Jarry ed Eluard. Inoltre, si è sempre – anche se non sistematicamente – occupato dei risvolti teorici della traduzione, giungendo a conclusioni originali e consentendo di superare la secolare diatriba fra “brutte fedeli” e “belle infedeli”. In particolare, Fortini ha capito presto che queste nozioni altamente rassicuranti e abusate di bellezza e fedeltà non hanno più molto senso, e che oggi si tratta di staccarsi tanto dalla Scilla della resa attualizzata e non somigliante all’originale quanto dalla Cariddi della versione fedele a tutti i costi e magari arcaica o arcaicizzante. La terza via che Fortini, come molti altri, ha indicato, consiste nello studio approfondito degli archetipi letterari, della musicalità e della valenze del testo di partenza, nella sua attenta decostruzione filologica, per poter arrivare a una serie di equivalenze che non stonino e che anzi aggiungano valore al testo anziché essere condannate a sottrargliene.

Su tutto questo Fortini si è interrogato con acribia fin dal 1972 in due testi, Traduzione e rifacimento e Cinque paragrafi sul tradurre, poco dopo aver congedato la versione del Faust goethiano cui accennavo poc’anzi, aggiornando poi le proprie riflessioni metaletterarie in occasione di un seminario tenuto nel 1989 all’Istituto di studi filosofici di Napoli. Il testo di queste conferenze sarà poi pubblicato da Quodlibet nel 2011 con il titolo Lezioni sulla traduzione. Sempre nell’ottica della rivendicazione attiva della vita autonoma della traduzione in quanto testo letterario a sé stante – sulla scorta forse anche degli esercizi del Quaderno di traduzioni montaliano – va letto anche il rifiuto, da parte di Fortini, del “testo a fronte” quale rete di salvataggio, o se si preferisce quale consuetudine che dovrebbe testimoniare della bravura e della scaltrezza tecnica del traduttore.

Nel sottolineare l’autonomia del testo tradotto, Fortini è insomma più vicino alle traduzioni “d’autore”, con tutte le libertà che l’idioletto poetico del nuovo poeta-creatore consente – compresi gli echi del proprio fare poetico – che non alla traduzione interlineare preconizzata quale ideale assoluto in un famoso saggio da Walter Benjamin, anche se la lezione di quest’ultimo gli serve per frenarsi in tempo, entro i limiti di un sano artigianato, e per non lasciarsi tentare da quei veri e propri “rifacimenti”, spesso disinvolti, che stravolgono il testo di partenza. Fortini avverte colleghi e aspiranti traduttori che l’invenzione è un’arma a doppio taglio, e che persino il genio e la creatività possono avere ripercussioni stranianti e negative sul lavoro di traduzione, tanto che un suo articolo del 1983 sul Corriere della Sera, dedicato appunto alla traduzione, verrà titolato “Per favore, non troppo genio”. Certo, è un percorso insidioso, ai limiti della spericolatezza, quello che Fortini propone: un percorso lungo il quale si rischia sempre di cadere da una parte o dall’altra; ma quando al traduttore-equilibrista l’operazione riesce, s’instaura una sorta di “superfedeltà” al testo che rende la traduzione davvero esemplare.

L’incontro con Brecht avviene grazie a una folgorazione: capita nelle mani di Fortini un’edizione dell’Opera da tre soldi curata nel 1946 da Emilio Castellani per una piccola casa editrice che svolgerà un ruolo di primo piano nell’immediato dopoguerra, la Rosa e Ballo. Da quel momento e per quasi trent’anni, per l’esattezza fino al 1976, Fortini si dedicherà con entusiasmo al drammaturgo tedesco (spesso in binomio con sua moglie, Ruth Leiser), traducendone l’opera poetica e molti drammi, come Santa Giovanna dei macelli, Madre Courage e i suoi figli e la stessa Opera da tre soldi, anche se sempre – va detto – con una netta preferenza per i versi. L’attenta revisione da parte di Cesare Cases non solo del lavoro di Fortini, ma dei testi di tutti i traduttori dal tedesco che pubblicavano con Einaudi, fra i quali vanno ricordati almeno il già citato Castellani e Roberto Fertonani, aggiunge un ulteriore elemento di precisione filologica e di discussione aperta e fruttuosa che non poteva che migliorare il prodotto finale.

Di una cosa Fortini era perfettamente consapevole: della storicità del suo gesto traduttivo, del fatto cioè che una traduzione è il prodotto di determinate circostanze storiche o storico-biografiche e che difficilmente resisterà a lungo allo scorrere del tempo. È, questo, uno dei problemi che, fra le esigenze di comunicabilità con i propri contemporanei e l’impossibilità di prevedere gli sviluppi della lingua da qui a cinquanta o cent’anni, la traduzione non è ancora riuscita a risolvere. Tutto ciò che possiamo dire è che questo non deve impedirci di portare a termine il nostro lavoro e che dobbiamo anzi accingerci ad esso come se fosse destinato a rimanere in eterno. Fortini non se ne è mai fatto condizionare; al contrario, ha cercato di far tesoro proprio delle scorie che il tempo disseminerà a posteriori nei nostri testi per proporre e imporre, a volte con un gesto che sarei tentato di definire teatrale, un’identità chiara e persuasiva della traduzione e di chi la firma. È solo quando il traduttore si assume le proprie responsabilità che il testo, una volta congedato, potrà vivere un’esistenza autonoma e relativamente duratura; ed è solo quando l’etica di lavoro del traduttore traspare dal testo, come avviene nell’opera di Fortini, che il valore del lavoro stesso si rivela.

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