Alberto Crespi
Zattere agli Incurabili

Il western aborigeno

«Sweet country" del nativo australiano Warwick Thornton racconta l'odissea di un aborigeno che non riconosce i valori dei colonizzatori bianchi. Quasi un remake del mitico “Ucciderò Willie Kid”, western atipico di Abraham Polonsky

Parlare bene di un regista per parlare benissimo di un altro regista è un’operazione forse lievemente scorretta, ma spero che Warwick Thornton non se ne avrà a male. Thornton è un regista e direttore della fotografia australiano con un curriculum già notevole, e con una particolarità etnica che lo rende speciale: è un nativo australiano, un aborigeno, e nei suoi film da regista racconta quasi sempre la spiritualità e le sofferenze del suo popolo. Non sappiamo quasi nulla degli aborigeni, a differenza dei nativi americani (e anche lì, al 90%, sappiamo quello che ci raccontano i bianchi). Anche perché, e il suo nuovo film Sweet Country lo mostra molto bene, sono un popolo scarsamente interessato a comunicare con noi – dove per “noi” si intendono i bianchi e gli europei in genere: e si ha un bel dire che noi italiani non c’entriamo niente con il loro olocausto. Avevano un continente tutto per sé, usanze lingue e tradizioni millenarie, una religione e una cosmogonia super-complesse, e poi è successo quello che è successo: come dar loro torto?

Sweet Country si svolge all’inizio del ‘900 ed è la storia di un aborigeno che ammazza un colono ubriacone, ottuso e violento che gli ha pure stuprato la moglie. Ovviamente è costretto a fuggire nel “bush”, e altrettanto ovviamente la giustizia (?) gli dà la caccia. Alla fine c’è un processo in cui l’aborigeno si rifiuta a lungo di parlare e di difendersi, proprio perché lo stesso concetto di “giustizia” a noi caro gli appare del tutto incomprensibile. Il film è affascinante e non schematico, perché i bianchi non sono tutti uguali e anche gli aborigeni non lo sono (ci sono quelli che collaborano con i bianchi, e ci sono quelli che a inizio ‘900 ancora vivono allo stato preistorico).

Ma la cosa che mi ha colpito è che la struttura narrativa e ideologica di Sweet Country è assolutamente identica a quella di un capolavoro della New Hollywood anni ’60. Il film sembra (e forse è) un remake non confessato di Ucciderò Willie Kid, un western del 1969 in cui Robert Blake era un indiano paiute tutt’altro che simpatico che fuggiva dalla riserva dopo aver commesso un omicidio, e Robert Redford era lo sceriffo tutt’altro che antipatico (del resto, come può Redford essere “cattivo”) che gli dava la caccia. Sotto la crosta western si tratta di due film radicali, dialettici e sostanzialmente anti-colonialisti. Il regista di Willie Kid era Abraham Polonsky, un membro del partito comunista americano vittima della caccia alle streghe di McCarthy che era rimasto senza lavorare (o comunque senza firmare) dal ’48 al ’69. Di lui si ricordano due film, due capolavori: il citato Willie Kid e lo straordinario Le forze del male, un noir marxista con John Garfield (comunista pure lui) che analizzava con occhio brechtiano il funzionamento del racket delle scommesse, che diventava una chiarissima metafora di Wall Street e del capitalismo.

Oggi Thornton mi ha richiamato alla memoria Polonsky, un grande artista pressoché dimenticato, e io ho voluto ricordarlo a voi. Il nostro amico aborigeno, che ha fatto un signor film, ci perdonerà.

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