Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Mauro Sambi

Presagi d’Istria

La lezione dei maestri, «uno stupefatto senso del passato», la prossimità con le persone amate, la contiguità con la natura, con Pola, sua città natale. E con le sue radici Sambi medita un confronto e regala a Succedeoggi la sua prima poesia in dialetto

La poesia di Mauro Sambi, nato a Pola ma residente a Padova («A lungo, forse troppo a lungo sono / stato chiuso in una lingua tra due / mondi»), si caratterizza per una dizione elegante e raffinata e per il recupero di forme chiuse come quelle del sonetto o della sestina. Sambi, figura schiva e appartata, ha pubblicato le raccolte L’alloro di Pound (2010) e Diario d’inverno (2015). Nell’anno corrente è uscita la rilevante plaquette Una scoperta del pensiero e altre fedeltà (26 pagine, 6 euro), secondo titolo di una nuova collana poetica diretta da Matteo Vercesi per Ronzani Editore, «Qui e altrove», che ha la caratteristica di proporre un manifesto numerato contenente un testo estratto dalla stessa plaquette. Osserva Bruno Nacci nella sua accurata introduzione: «Poesia raffinata, colta, che si depone sulla pagina come il prodotto di una decantazione, frutto di una segreta alchimia, eppure capace di abbandonarsi al piacere di un cromatismo impressionista grazie all’uso, parco, della metafora, con accensioni generose, con nostalgie e uno stupefatto senso del passato».

Può parlarci della sua ultima plaquette, Una scoperta del pensiero e altre fedeltà?
La plaquette porta il titolo dell’unica lirica non scritta da me che contiene una mia traduzione di uno dei testi postumi di Wallace Stevens (A discovery of thought): per mettermi in secondo piano, per essere coerente nei fatti con una delle piccole dichiarazioni di poetica che aprono la raccoltina (La lezione dei maestri / studiarla a fondo, non temere quel di meno / di finta libertà), infine perché, come sempre nello Stevens maturo e maggiore, un linguaggio fatto di parole piane, ma sintatticamente molto elaborato, è messo al servizio di un movimento quasi astratto, per immagini e colori, dal buio alla luce, dall’inverno alla primavera, da tutto ciò che si oppone alla poesia, dalla disperazione alla speranza, dal ripiegamento alla posizione verticale, dal peso alla leggerezza, e in questo modo sembra condensare e concentrare i diversi temi toccati negli altri testi. Pensiero poetante, disperata speranza e verità, declinata innanzitutto come fedeltà nel tempo, innanzitutto alle persone amate (sette dei dieci testi sono dedicati ai miei interlocutori di una vita), sono, insieme, strumenti e temi di queste come delle mie precedenti cose.

Lei è docente di Chimica a Padova. Come riesce a conciliare tale attività con la scrittura poetica?
Ci riesco molto male, in particolare negli ultimi anni. La ricerca scientifica tende di per sé a essere un’attività totalizzante. Se a questo si aggiungono l’insegnamento, gli impegni istituzionali via via crescenti che la carriera comporta e soprattutto la rapida deriva aziendalista della neo-università plasmata dalla cosiddetta legge Gelmini, in vigore da qualche anno, il tempo – ma soprattutto le occasioni, le energie mentali – da dedicare alla scrittura si riducono drasticamente.

Qual è la situazione della poesia in Istria?
Premetto che non conosco lo stato della poesia istriana e fiumana in lingua croata (e slovena limitatamente all’Istria nordoccidentale). La poesia in lingua italiana ha delle peculiarità molto definite che derivano dal fatto di nascere in un ambiente sociale, linguistico e culturale da lungo tempo non più italiano. Accanto ai nomi dei grandi dialettali in lingua istroromanza (ieri Ligio Zanini, oggi Loredana Bogliun), gli esiti più convincenti tra i nati dopo l’esodo dei giuliano-dalmati sono quelli di Ugo Vesselizza (Pola), Vlada Acquavita (Buie), Alessandro Salvi (Rovigno), Laura Marchig (Fiume). Per qualche tempo, finché il lavoro me lo ha consentito, ho curato una rubrica su queste Voci Oltrenordest per il sito Cartesensibili di Fernanda Ferraresso. Il lettore interessato ad approfondire trova ora i miei contributi archiviati qui: https://analfabetiere.wordpress.com/tag/voci-oltrenordest/

Quali sono gli autori che hanno contribuito alla sua formazione?
Direi quelli che torno a leggere e rileggere con maggiore insistenza e regolarità. Per limitarmi ai poeti del Novecento Saba, Marin, Montale, Bertolucci, Sereni, Fortini, Zanzotto, Ripellino, Giudici, Raboni e, tra gli stranieri, Rilke, Stevens, Eliot, Walcott e, soprattutto, Auden. Una scoperta per me sorprendentemente recente ma imprescindibile è stato Virgilio Giotti. Tra i viventi cito solo un nome di un mio più o meno coetaneo: Pierluigi Cappello.

Nella sua ultima plaquette sono molto presenti gli elementi naturali.
Non solo in questa, ma forse ancor più nei libri precedenti. Sono nato a Pola, letteralmente in riva al mare: solo una breve striscia di pineta divide la casa della mia infanzia e adolescenza dagli scogli che inquadrano un orizzonte aperto, celeste e marino. Questa contiguità con la natura è una delle cose che mi mancano più acutamente nella mia ormai trentennale trasferta nella cosiddetta “area metropolitana” veneta. Ma c’è un aspetto che travalica la nostalgia del migrante. Per noi italiani “rimasti” o nati in Istria dopo il secondo conflitto mondiale, per decenni “tollerati” purché stessimo rigorosamente entro il perimetro che ci era stato assegnato (e che comprendeva anche il ruolo, tanto scomodo quanto mistificatorio, di discendenti ed eredi degli oppressori di ieri) il rapporto col paesaggio ha sempre avuto un’intensità e una forza che deriva in misura essenziale dal suo essere un contrappeso al grigiore plumbeo e asfissiante dell’ideologia e della politica. Così scrivevo tempo fa a proposito di Laura Marchig: «In Istria e nel Quarnero si possono ancora relativizzare i morsi della cronaca, delle ideologie, dei nazionalismi, della Storia e delle storie semplicemente uscendo di casa e allargando lo sguardo, cercando come lenimento l’illustre mariniano “non tempo del mare”, grossomodo lo stesso non tempo negli stessi luoghi su cui si aprivano i sensi degli avi, che vivevano in un paesaggio umano radicalmente diverso da quello attuale. Nella Natura più che nella società è possibile riannodare i fili, rintracciare i segni di una labile ma persistente continuità, relativizzare gli assoluti mortiferi della retorica politica, trovare la propria plausibilità e “giustificazione”. Con consapevolezza e con il giusto disincanto». Si pensi anche a Ligio Zanini, al suo cantun de paradéisu, al suo angolo di paradiso, la costa tra Pola e Rovigno vista e vissuta dalla sua barca di pescatore dopo il trauma del campo di concentramento di Goli Otok.

Cosa sta preparando attualmente?
Aspetto di portare a termine, a fine settembre, un compito istituzionale in ambito professionale che mi ha impegnato molto negli ultimi quattro anni e ha fatto di me – e non sempre, e molto poco – un “compositore estivo”. Vorrei poi iniziare a lavorare in modo più diretto di quanto non abbia fatto finora sulle mie radici istriane (qualche presagio affiora già nella plaquette Ronzani), un progetto tanto ambizioso quanto vago. Vedremo.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Si tratta delle prime e per ora uniche parole che sono riuscito a rivolgere a mio padre a un anno dalla sua prematura scomparsa. Non sono riuscito a farlo altrimenti che usando il nostro dialetto istroveneto, nella variante polese, che abbiamo sempre usato in famiglia. È la mia lingua materna, la lingua in cui ancora mi capita di pensare e di sognare. È la prima poesia in dialetto che oso rendere pubblica. Ne conservo pochissime altre. Ne seguiranno? Per ora non so dirlo.

***

Setembre

A sta luce ormai fiapa de setembre

che stonda ogni canton co la sua polvere

de oro vecio, vecia siora che ancora

se indovina de mula esser sta bela,

 

mi no podarò mai volerghe mal

per gaverte portà a morir con sè

ne l’inverno, nele sue prime piove,

nei primi fredi, nel scuro che cressi;

 

perchè la me disi che tuto quanto

sto mio bazilar per niente xe niente

co la me porta un poco via de qua

 

dove che ti ti son xa, ’ndo’ che semo

come che jèrimo una volta, insieme

per sempre ti e mama e Bruno e mi.

Settembre A questa luce ormai fioca di settembre / che stonda ogni angolo con la sua polvere / d’oro vecchio, vecchia signora che ancora / s’indovina da ragazza essere stata bella, // io non potrò mai voler male / per averti portato a morire con sé / nell’inverno, nelle sue prime piogge, / nei primi freddi, nel buio che cresce; // perché mi dice che tutto questo / mio affannarmi per niente è niente / quando mi porta un poco via da qua // dove tu sei già, dove siamo / come eravamo una volta, insieme / per sempre tu e mamma e Bruno ed io.
Mauro Sambi

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