Ilaria Palomba
Incontro con uno scrittore "stanco"

L’ultima parola

«Quello dell'editoria è un mondo povero che gioca a fare il ricco, un mondo sgraziato che scimmiotta i meccanismi della grande industria, senza averne minimamente le possibilità e il grado di potere»: Massimiliano Santarossa spiega il suo addio alla letteratura

«È giunto il momento dei saluti, di stringere le mani, di voltarsi e andarsene dalla festa. Ringrazio tutti per questi intensi, stupendi, a volte allucinati, duri, sempre vissuti, dieci anni letterari. Ho scritto, parlato, urlato, letto, e di nuovo scritto, più di quanto avessi mai immaginato possibile. Credo ne avesse bisogno il bambino che ero, per trovare il suo posto nel mondo. E trovarlo grazie ai romanzi è stato meraviglioso, una gioia, la più grande che potesse capitarmi. Ho dato in otto romanzi e dieci anni tutto ciò che potevo, nella onesta massima che potevo, ho raccontato tutto ciò che conoscevo, anche questo nella onestà massima.
Un grande grazie va alle persone con cui ho collaborato e alle tre meravigliose Case Editrici, tutte Indipendenti, che negli anni mi hanno sostenuto. Ma il più grande Grazie, e lo dico con commozione, va a chi ha tenuto tra le mani ciò che ho scritto. Per ogni scrittore, artista, l’unico rapporto che davvero conta è coi propri Lettori.
Mi avete voluto bene. Vi ho voluto bene. Ora è tempo di salutarsi. La festa, che ai miei occhi è stata bellissima, ora è finita. Ed è giusto così: perché è finita non un minuto troppo tardi. Grazie a tutti. Massimiliano Santarossa»

Così lo scrittore friulano dice addio alla scrittura, e noi tutti ci auguriamo non sia davvero un addio ma solo un arrivederci, eppure anche questo è un gesto di grande onestà intellettuale. Per chi lo conosce, Max Santarossa è lo scrittore delle periferie, forse il più autentico che abbiamo in Italia. Il suo primo libro è del 2007, Storie dal fondo (Biblioteca dell’Immagine), il suo ultimo del 2016, Padania (Biblioteca dell’immagine). Nel frattempo ci sono stati Gioventù d’asfalto (Biblioteca dell’Immagine) , Hai mai fatto parte della nostra gioventù? (Baldini, Castoldi e Dalai), Cosa succede in città (Baldini, Castoldi e Dalai), Viaggio nella notte (Hacca), Il male (Hacca), Metropoli (Baldini, Castoldi e Dalai). Lo stile nel corso del tempo è mutato, dal realismo crudo dei primi libri, fino al barocchismo biblico e onirico de Il male, per poi tornare al realismo ma con uno sguardo antropologico, filosofico e sociologico in Padania. I temi affrontati sono i temi base della nostra società occidentale: la distruzione dell’individuo a opera del capitale, la schiavitù del lavoro, le periferie dell’anima, i dannati della Terra, gli ultimi. Probabilmente Max sente ora di aver esplorato quei temi in lungo e in largo e per questo ha dunque deciso di ritirarsi dalla scena, ma forse c’è anche altro. L’ho intervistato per saperne di più.

Perché hai deciso di abbandonare la scrittura?

Per stanchezza, e per onestà verso me stesso e verso i lettori che in questi dieci anni hanno amato i miei romanzi. Dire addio a qualcosa di così vitale come la scrittura è un gesto doloroso ma arrivato a questo punto anche di liberazione. Si diventa stanchi in dieci anni vissuti così intensamente: otto romanzi, trecento reading lungo questo strano posto chiamato Italia, gli spettacoli teatrali nati dai romanzi, le attese, le pressioni. Ero stanco e rischiavo di ripetermi, stanco del personaggio che inevitabilmente ero diventato, stanco delle luci, degli applausi, delle polemiche politiche, continue, verso i miei testi. L’onestà invece ha a che fare con le mie scelte artistiche che da sempre sono ai miei occhi scelte sacre, legate al realismo letterario; un approccio umano per me, di realtà appunto, e quindi avendo narrato tutto ciò che sentivo urgente e che conoscevo è venuta meno la spinta artistica, si sono taciute le voci che mi spingevano, insomma è finita la festa e prima di diventare patetico dovevo, io, spegnere la luce.

Il tuo ultimo libro, Padania, è un ritratto feroce non solo del Nord ma di tutta l’Italia di oggi. Immagino non sia stato facile scriverlo ma anche per un certo tipo di lettori, non dev’essere stato facile leggerlo, eppure è un grande successo, grandi teatri pieni, pubblico felice. Come ti fa sentire tutto ciò?

Padania è un “testamento”, chi lo ha letto con attenzione in qualche modo si aspettava la mia chiusura con la scrittura. Ma Padania è soprattutto un romanzo fotografia della realtà occidentale di questi anni, degli abissi che abbiamo aperto noi stessi, attraverso l’economia malata, la speculazione finanziaria, lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, la social-pornografia, l’esibizione costante della vita privata, l’ignoranza esibita e agevolata dalle istituzioni e dai media, etc… Padania è inoltre un progetto che continuerà nonostante la mia volontà di chiudere con la scrittura, vivrà con uno spettacolo teatrale e un documentario e un progetto fotografico. Aver riempito teatri, aver visto così tanti, tanti, tanti lettori amarlo, è stato un momento di rigenerazione: aver sentito e compreso che i Lettori veri esistono ancora, quindi la speranza nel potere critico dell’arte. E questo mi fa sentire in pace.

Spesso accade che uno scrittore trovi la sua voce più autentica parecchio tempo dopo gli esordi e sia quindi portato a rinnegare, o comunque a voler superare, ciò che è stato e ciò che ha scritto all’inizio. Hai provato anche tu questa sensazione?

Sì, l’ho provata verso i miei due primi romanzi, verso la loro voce così cruda e sporca, un po’ come un musicista punk che dopo tanti anni abbraccia musicalità più ricercate, che compie una inevitabile crescita nella ricerca dei suoni. Anche io ho rinnegato quel passato punk, ma alla fine in Padania il protagonista ritrova i personaggi di Storie dal fondo e avviene un saluto, un’ultima stretta di mano, in modo che il cerchio delle loro vite si chiuda bene, a modo loro.

Parti da uno stile semplice, descrittivo, con Storie dal fondo, fino ad arrivare al suo estremo opposto: il barocchismo metafisico e oracolare de Il male. Per poi però tornare al realismo crudo, nutrito da uno sguardo sociologico, con Padania. Raccontami questo percorso.

Ho sempre avuto un rispetto rigoroso, direi religioso, dell’arte, di ogni forma d’arte. Nella scrittura mi ha portato al rispetto delle voci che chiedevano di essere narrate. Io mi sono fatto tramite, ponte, mi sono messo al servizio, stavo a metà tra quelle voci e i lettori. Andavano rispettati entrambi. Per cui se in Storie dal fondo sono gli ultimi e gli sbandati a parlare, con le loro voci ultime e sbandate, ne Il male che è un romanzo teologico con Lucifero protagonista, per forza il principe nero, il figlio primo di Dio, doveva vedere rispettata la sua voce alta e barocca e infernale e luminosissima. Uno scrittore, quando è impegnato, deve essere al servizio della coerenza, della realtà, del timbro e del suono di ciò che si appresta a narrare.

Nei tuoi libri attacchi ferocemente la società dei consumi, il pensiero unico votato a soggiogare le masse mediante il dictat del lavoro salariato, le derive ultime del tempo presente ai danni dei più deboli. Quanto Marx c’è nelle tue parole? E quanto Nietzsche?

Ci sono entrambi in eguale misura, Marx l’ho letto da ragazzino ed è stata da subito una appartenenza fisica al suo pensiero critico, al Manifesto come al Capitale, quest’ultimo lo leggo ancora a volte, a pezzi naturalmente. A seguito di quella auto-formazione sentimentale e “critico economica” diventai un ragazzino fervente sostenitore dell’allora PDS, l’erede del Partito Comunista Italiano, tanto da percorrerne per anni un viaggio politico interno e diventarne segretario della sezione giovanile nella mia regione. Poi ci fu lo strappo col Partito, con i suoi limiti verso le libertà, uno strappo feroce con conseguente espulsione. Da lì iniziai un approccio alla filosofia, a Kant nella critica alla ragione pura, critica che sentivo rappresentativa del mio vissuto precedente e di conseguenza a Nietzsche, al suo invito ad abbracciare l’uomo in quanto bestia potente e perennemente sofferente. Fu uno dei passaggi, tanti anni fa, verso l’arte e la scrittura, il pensiero di Nietzsche.

Qual è per te oggi il significato e il senso della parola nichilismo.

Quello filosofico più antico, l’estraniarsi da una società che si detesta, abbracciare un senso quasi apocalittico, fermamente coerente e critico, lucidissimo, di contestazione e distanza. L’odio e la naturale mancanza di empatia verso il potere, che è sì quello dei consumi, ma anche quello della stupidità dell’individuo medio occidentale, ormai cieco ai bisogni dell’anima e totalmente asservito a quelli del corpo e del divertimento, anche quando balla sul ponte del Titanic. Ecco, sono naturalmente nichilista.

Le tue principali fonti d’ispirazione letteraria sembrano essere Céline e Houellebecq, cosa ti lega a loro?

Sì, sono Céline, Houellebecq e Pasolini. Mi lega l’amore. Amore verso le loro scelte artistiche e umane. Provo un amore poetico verso quella infinita coerenza. Autori che davanti al burrone non hanno esitato ad aprire le braccia e gettarsi, nel buio. Solo così si fa letteratura degna di questo nome.

Un istante di spietata sincerità sul mondo letterario ed editoriale italiano di adesso.

Il mio percorso nella scrittura si interrompe felicemente, non ho rancori né delusioni. Ho avuto tantissimo da quest’arte, sia umanamente sia economicamente molto più di quanto meritassi, e di questo posso dire Grazie ai miei lettori. Lascio nella maniera più pulita possibile. Invece sul mondo editoriale, nella fattispecie sulla macchina che detiene la grande editoria milanese, ho un’idea precisa, perché la conosco molto bene: è un mondo povero che gioca a fare il ricco, un mondo sgraziato che scimmiotta i meccanismi della grande industria, senza averne minimamente le possibilità e il grado di potere. L’editoria “grande” quindi non è nemmeno cattiva, ha perso solo il senso della realtà crollando nel ridicolo. Tutto qui. Ma ciò che più fa ribrezzo sono gli scrittori odierni, anche diversi considerati alternativi e impegnati: troppi, troppi e perennemente concentrati su contratti, tirature, anticipi, venduto. Non ho mai frequentato nessuno, rifiutando sempre e costantemente ogni invito a cene o salotti, tuttavia quando mi è capitato di incrociarli per errore, i discorsi ricadevano sempre lì: contratti, tirature, anticipi, venduto. Mai una parola che avesse a che fare con l’arte. Persone, scrittori, scrittrici, di una noia assoluta.

Se un giorno vorrai riprendere a scrivere lo farai sotto pseudonimo?

No. Lo farò, se mai capitasse, scrivendo tutt’altro. Se un giorno (ne dubito fortemente) dovessi tornare, tornerò con un viaggio del tutto diverso. Questo dello “scrittore simbolo delle periferie”, come sono stato mille volte definito dalla critica italiana, si è definitivamente concluso. Non sarò certo io a rovinarlo con ritorni patetici, utili unicamente a fare soldi.

L’evento più importante della tua vita, quello che ti ha portato a essere lo scrittore Massimiliano Santarossa.

Quando a sei anni mi rinchiusero nella classe dei “bambini indietro”, noi quattro bambini “problematici” o “spastici”, i “diversi” della scuola intera. Tutto ciò che ho scritto l’ho scritto per uscire da quella “classe”. Per questo il viaggio è finito: ho lasciato alle spalle quelle mura. La potenza della creazione artistica sta qui: nella profonda forma di auto analisi. Che a volte salva.

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