Pier Mario Fasanotti
Due libri sulla città antica

Guardando Roma

Andrea Carandini e Giulio Caporali aiutano i lettori (e i turisti) a orizzontarsi tra gli strati storici di Roma. Con l'aiuto del Tevere, di Giulio Cesare e della pugnalata fatale di Bruto...

I turisti di tutto il mondo, italiani compresi, sono così sfacciati da affermare che Roma la conoscono bene. In quest’ultimo periodo è aumentato a dismisura il turismo mordi (o mangia) e fuggi: un giorno o due (se va bene) passati nella Caput mundi per vantarsi di avere memoria, anche storica, della città millenaria. Anche chi ci vive, a volte ignora o stenta a capire davvero ciò che potrebbero raccontare un muro, una statua, un ponte. Certo, quella di Roma è una narrazione smisurata, quasi senza confini. Invece di ricorrere al quel factotum che è diventato il cellulare o a Wikipedia, è molto meglio documentarsi attraverso i libri e affidarsi a storici di buon livello. Come per esempio Andrea Carandini, docente di Archeologia e Storia all’università La Sapienza. Nella sua recente opera, Angoli di Roma (“Guida inconsueta alla città eterna”), Laterza, 253 pag., 20 euro), racconta brillantemente e con estrema erudizione tante cose, molte delle quali poco note (di qui il sottotitolo).

Alcuni esempi. Dai libri di scuola abbiamo appreso che Cesare fu pugnalato 23 volte. Un solo colo mortale, quello di Marco Giunio Bruto (“et tu Brute!”), pare il figlio naturale del dictator. L’agguato avvenne davanti al Senato il 15 marzo del 44 A.C. (giorno delle famosissime “idi”). Sappiamo anche che gli schizzi di sangue imbrattarono la statua di Pompeo, prima amico e poi rivale del conquistatore della Gallia. Ma che c’entra Pompeo? C’entra eccome, visto che i complottisti, tra cui appunto il giovane Bruto, aspettarono Cesare davanti ai gradini (“subsellia”) che portavano a un’aula rettangolare, quindi un “templum” (questa era la condizione per potervi riunire il Senato). E quel templum era la Curia di Gneo Pompeo Magno (che morì un anno dopo), e non la sede storica che era la Curia Julia, ricostruita e oggi visibile nel Foro romano. Al centro dell’aula c’era una nicchia che interrompeva l’ordine architettonico delle colonne. Oggi noi possiamo vederne i resti in piazza di Torre Argentina. Quindi è lì che ci fu una riunione senatoriale, non necessariamente assemblea dell’antico Senato. Commenta Carandini: «È impressionante quanta poca attenzione ricostruttiva sia stata riservata a questo strepitoso complesso, come a tanti altri anche insigni di Roma. La curia andrebbe scavata sotto la strada, rendendola visitabile… modesto progetto, ma troppo grande per gli attuali miserrimi tempi». Personalmente aggiungerei: pure per l’attuale giunta capitolina.

Uno dei “gialli” che riguardano l’antica Roma deve essere situato a Porta Mugonia, che si diceva sul clivio Palatino, nota ai tempi di Nerone. Manca ogni porta d’accesso, per cui dobbiamo spostare, non di molto, lo sguardo. Si risale agli anni 775-750 a. C.. Lì ci fu il sacrificio di un minore. La Porta venne più volte ricostruita. Per esempio Tarquinio Prisco, uno dei re della Roma pre-repubblicana, costruì la sua Dumus Regia. Spetta a Tarquinio il Superbo «una maggiore violenza topografica», come scrive Carandini, quando abbatté l’abbattibile e fece costruire quattro case aristocratiche. La Porta Mugonia divenne Porta Fenestella, ossia la “vetus porta Palatii”. I Sabini invasori penetrarono da un’altra parte, più comoda in quanto più vicina alle retrovie militari. Non sono, queste, storie eccezionali dato che era diffuso a quei tempi il desiderio di accrescere le proprietà (“cupido iungendi”).

Dove abitava Ottaviano, che divenne poi Augustus (termine che significava l’”inauguratus” o “benedetto da Giove”)? In una casa modesta, una volta appartenuta ad Ortensio Ortalo, come racconta lo storico Svetonio ai tempi di Adriano. Modesta abitazione che però aveva due strepitosi vantaggi: sotto i muri tufacei c’erano le grotte del “Lupercal”, dove sgorgava la fonte, luogo dove Remo e Romolo erano stati nutriti dai loro “totemici antenati”, ovvero il picchio e la lupa. Oggettivamente oggi pochi rammentano l’esistenza di quel volatile. Ottaviano trasformò l’area in un sontuoso ninfeo, proprio nel sito dove si collocava il centro gravitazionale della prima Roma. Di Augusto, quindi, l’orgoglio di abitare, allora, nel punto sacrale della città. Si narra che nella notte del 37 a.C. un fulmine colpì la casa. Il futuro imperatore interpretò quel segno come il desiderio di Apollo di abitare con lui. Ottaviano, che pur fantasticava sul proprio destino di padrone del mondo, si pentì della sua troppo sontuosa dimora, ben sapendo che equivaleva abitare in una reggia come un re. Un’ambizione che a Roma era insostenibile e condannabile.

Abbiamo accennato ai ponti romani. Ecco un altro libro recente che ci informa minuziosamente, Uno sguardo dai ponti, di Giulio Caporali, ingegnere e storico, edito da Jacobelli, 174 pag., 18 euro. I più grandi “passanti” tra una sponda e l’altra si trovano sul Danubio e sul Reno. La ragione è ovvia: la larghezza dei corsi d’acqua. A Roma ci sono quindi ponti “corti”: il Tevere ha un’ampiezza modesta, a confronto. L’autore giustamente osserva che se non ci fossero stati ponti, Roma sarebbe stata somigliante a città come Viterbo o Frosinone. Oggi nella capitale ci sono oltre 20 ponti, quattro dei quali sono più lunghi di 200 metri (Flaminio, Duca d’Aosta, Marconi e Magliana). Il Cestio e il Fabricio non superano i 50 metri. Gli altri tra i 100 e i 50 metri. Ben 2800 anni fa qualcuno decise che sarebbe stato un buon affare sostituire i traghetti con un manufatto di pietra, da una sponda all’altra. Per comodità il primo investimento ingegneristico si realizzò là dove sorge l’Isola Tiberina. La natura stessa suggerì la costruzione di una struttura a campata unica, la cui origine risale agli Etruschi. I Romani costruirono ponti in tutto l’Impero, allora ben più vasto dell’attuale Europa.

Il ponte facilita la conquista militare. È per questa ragione che Cesare nel 55 a.C. superò la barriera naturale del Reno (largo 450 metri) nei pressi dell’attuale città di Neuwied, 15 km a valle di Coblenza. Gli ingegneri romani idearono e realizzarono un ponte di legno, in 56 campate ognuna ampia otto metri, con una carreggiata larga quattro. Si legge in pagine memorabili: «Conclusa la guerra contro i Germani, Cesare pensò che per molte ragioni egli dovesse attraversare il Reno: la più valida di queste era che, visto che i Germani tanto facilmente entravano in Gallia, era necessario dimostrare che anche il loro paese correva il pericolo di essere invaso, potendo e osando l’esercito romano attraversare il fiume». Sarebbero bastati i traghetti e le navi? Soluzione militarmente fragile. E non confacente alla dignità dell’uomo che cominciò a soggiogare i popoli al nord delle Alpi. Inoltre c’era in ballo la superiorità tecnologica di Roma.

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