Vincenzo Nuzzo
Tra filosofia e letteratura

Balzac e l’apparenza

Davvero non possiamo sottomettere il mondo a un giudizio etico? Basta leggere le «Illusioni perdute» di Honoré de Balzac per trovare una risposta (che va oltre la filosofia di oggi)

Com’è e cos’è veramente il mondo? È una domanda che ha sempre assillato l’intera filosofia. Ma solo la filosofia o anche la poesia? Concentrandosi sul «veramente», sembrerebbe che, come ipotizzato del resto da Platone, la poesia sia costituzionalmente incapace di dare una risposta alla domanda, e forse anche perfino di formularla. Eppure, le cose non sembrano stare più in questo modo se si prendono in considerazione la poesia meno recente da un lato e la filosofia più recente dall’altro lato. Una valutazione di questo genere può essere fatta se si prendono in mano le Illusioni perdute di Honoré de Balzac e Il visibile e l’invisibile di Maurice Merleau-Ponty. Il narratore è così ampiamente noto che non è necessario nemmeno presentarlo, mentre il pensatore lo è certo di meno. Per cui va ricordato che egli è stato esponente di una forma abbastanza specifica del più recente realismo filosofico moderno; e cioè quello che si è sviluppato sulla base dell’idealismo fenomenologico husserliano una volta avvenuta la sua interazione con l’esistenzialismo heideggeriano e sartriano. E, in estrema sintesi, si può dire che Merleau-Ponty abbia sostenuto le ragioni di una «visione» puramente basata sulla percezione, che permette al soggetto cosciente-pensante di aprirsi al mondo in modo davvero incondizionato, e cioè immergendosi totalmente in esso. Questa totale immersione appare però in filosofia concepibile solo dopo che sono state superate tanto la visione idealistica (Husserl) quanto la visione esitenzialistico-nichilista (Heidegger e Sartre).

Per il pensatore francese (nella foto) insomma non basta né ridurre totalmente l’ente mondano al soggetto cosciente (laddove la percezione viene totalmente oltrepassata) né concepire il soggetto cosciente come un assoluto nulla che faccia da costante contraltare all’ente mondano (ossia l’«essere» stesso) in una totale commistione con esso. Egli definisce le due visioni come “filosofia riflessiva” e “filosofia negativa”. Ebbene, in tal modo il mondo sta davanti a noi, quali soggetti, senza che assolutamente nulla si frapponga tra noi ed esso. Noi infatti siamo fin dall’inizio immersi in esso, e vi ci immergiamo sempre più ad ognuno dei nostri atti percettivi, senza che l’intreccio inestricabile che così sussiste possa essere nemmeno tematizzato. Qualunque presa di posizione che fa questo, agisce dunque astraendo dall’intima commistione con il mondo che coinvolge tutti noi, dall’uomo comune al filosofo.

Da tutto ciò scaturisce allora che non solo non possiamo porre in questione l’esistenza inoppugnabile del mondo (come era da sempre avvenuto praticamente in tutta la filosofia idealistica) ma soprattutto non possiamo sottometterlo ad alcun giudizio; meno ancora ad un giudizio etico-morale. Quest’ultimo appare essere infatti del tutto ingiustificato se non altamente ingenuo. E ciò non solo dal punto di vista filosofico ma anche dal punto di vista esistenziale.

Eppure il libro di Balzac rappresenta forse uno dei più chiari tentativi di mostrarci la più radicale possibile dimensione del doveroso giudizio etico-estetico da emettere sul mondo. Non farlo, infatti, ci espone fatalmente ad una catastrofica illusione. Accade cioè che noi scambiamo per bello, giusto e buono un mondo che è invece l’esatto contrario. Del mondo, insomma, esistono sempre due livelli di lettura: quello superficiale e quello profondo. Ma solo quest’ultimo è quello autentico, dato che solo in esso ci viene rivelata la vera natura del mondo che invece lo strato superficiale solo nasconde. Se ci affidiamo a una lettura superficiale del mondo, noi insomma cadiamo miseramente vittima delle apparenze.

Al centro del vasto affresco delineato dal narratore vi è la vicenda di un giovane poeta di provincia, Lucien, entro il mondo letterario, giornalistico e editoriale e sullo sfondo della Parigi della prima metà del secolo XIX. Tuttavia però le conclusioni indotte nel lettore dalla narrazione si prestano benissimo ad un’estensione ben maggiore. Per mezzo di essa noi abbiamo insomma la possibilità di gettare lo sguardo sul mondo e sull’esistenza umana in assoluto. Come del resto accade sia con altri libri di Balzaz sia anche con l’intera narrativa francese dell’epoca, ci troviamo davanti ad una vera e propria riflessione esistenzialista. Ed essa è di segno diametralmente opposta rispetto a quella di pensatori come Heidegger, Sartre e Merlau-Ponty. In essa infatti sembra permanere l’influsso profondo di quel dualismo idealistico di stampo platonico e metafisico-religioso (prevalentemente gnostico), in forza del quale noi del mondo ci facciamo appunto sempre una doppia immagine. La prima immagine è quella obiettiva e reale, corrispondente al mondo immanente e sensibile (naturale o storico che sia). E questa è decisamente sobria fino alla spietatezza pessimistica, in quanto in essa domina l’aspetto peggiore del mondo, ossia un mondo in primo luogo brutto (in quanto poi anche cattivo ed ingiusto). La seconda immagine è invece quella ideale. E questa ci raffigura un mondo totalmente buono, giusto e bello.

È inutile dire che la prima immagine raffigura il mondo naturale, mentre la seconda solo in mondo sovrannaturale. È inoltre del tutto ovvio che la moderna sensibilità tende a non prestare alcuna fede a questa visione; in modo tale che ad essa è congeniale molto più la visione dei filosofi esistenzialisti. Vista però l’insistenza con la quale un poeta come Balzac ci mostra evidenze che in fondo tutti noi conosciamo benissimo, ci si può interrogare sul valore differenziale che hanno, per l’uomo moderno, la tradizionale visione poetica e l’assolutamente anti-tradizionale visione filosofica. Nel mondo specie del giornalismo e dell’editoria, il narratore francese ci mostra in effetti quell’aspetto assolutamente ferino della vita sociale e lavorativa (fatto di infamie, menzogne, tradimenti ed assassinii di ogni genere) che ognuno di noi si sforza di non perdere mai di vista allo scopo di non essere sorpreso alla sprovvista. Dunque, per quanto possiamo protestare contro il dualismo moralista qui all’opera, tuttavia in questo adoperiamo noi stessi sempre una certa ipocrisia tendente all’occultamento. Noi insomma ci rendiamo di fatto complici dell’avvaloramento di quel livello più superficiale del mondo che è decisamente quello meno autentico.

Per questo è necessario che, come intellettuali, ci interroghiamo sul vero senso della condanna della poesia che fu decretata da Platone nella Repubblica. Esso tendeva infatti semmai a correggere e disciplinare la poesia, in modo che non cadesse nell’arbitrio della fantasia soggettiva e così soprattutto nell’irresponsabilità etico-politica. E lo scopo finale di quest’operazione era fare in modo che la poesia stessa non intralciasse l’azione di quella filosofia alla quale veniva da lui affidato il compito di esigere esattamente il mondo buono, giusto e bello nel quale abbiamo visto credere fermamente un poeta come Balzac. Dunque se la poesia ha conservato fino al XIX (dopo è per noi difficile dirlo!) una così platonica visione dualistica del mondo, e se in tal modo essa diverge nettamente dalla filosofia moderna, ciò significa che essa ha di fatto nel tempo appreso la lezione di Platone. E questo allora offre all’uomo moderno – minacciato com’è proprio dall’urgenza di una non più affrontata questione etica – la possibilità di porsi proprio davanti a questo genere di poesia apprendendo da essa quelle lezioni che sono in realtà solo della filosofia antica e non più invece della filosofia moderna.

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