Nicola Fano
Su “Tra il Po, il monte e la marina”

Romagna, Italia

Francesca Da Rimini e Edda Ciano, Giovanni Pascoli e Fellini, Aurelio Saffi e Mussolini, Francesco Baracca e Pantani: Pier Mario Fasanotti in un bel libro racconta i romagnoli. Prototipo perfetto degli italiani

Sanguigni, rissosi, intraprendenti e visionari; ma, soprattutto, borghesi. Sono i romagnoli raccontati dal nostro Pier Mario Fasanotti in un bel libro intitolato Tra il Po, il monte e la marina (“I romagnoli da Artusi a Fellini”) pubblicato da Neri Pozza (304 pagine, 18 euro). Messi così in fila – da Francesca da Rimini fino a Marco Pantani, passando per romagnoli proverbiali, come Mussolini o Francesco Baracca o Federico Fellini, o altri più tangenziali, come Pellegrino Artusi o Leo Longanesi – questi personaggi fanno un po’ impressione perché forniscono un imprevisto caleidoscopio dell’identità italiana. Come se la Romagna fosse la più italiana tra le Regioni italiane, forte delle sue contraddizioni: devota e mangiapreti, contadina e modernista, concreta e sognatrice. Eppure, suggerisce Fasanotti, tutti questi personaggi apparentemente distanti uno dall’altro finiscono per fornire un catalogo della borghesia italiana. Vale a dire quella classe sociale dall’etica intermittente nel segno della cui incompletezza l’Italia ha disegnato negli ultimi tre secoli se stessa: ossia un Paese malcerto, contraddittorio, certo solo dei propri vizi (sovente nient’affatto privati). Anche quando quei vizi sono – come dire? – creativi: in questo senso, la creatività di Fellini equivale a quella di Francesco Baracca, beninteso. Ma non, per esempio, a quella dell’unico vero rivoluzionario della lista di Fasanotti: ossia Aurelio Saffi, uno dei triumviri della Repubblica Romana. Rivoluzionario borghese, ovviamente.

Ma andiamo con ordine, perché tutte queste elucubrazioni nel libro di Pier Mario Fasanotti non ci sono mica! No, c’è solo una galleria di biografie tratteggiate con adesione da narratore: a metà strada fra il ritratto giornalistico e il saggio critico (a proposito di Dante e Fellini, per esempio). Del resto, Fasanotti è un giornalista di razza, sennonché la sua forza è nell’affabulazione, negli slittamenti, nei cambi improvvisi di passo: mentre si sta parlando di Mussolini, poniamo, ecco che s’affaccia il profilo di un certo Filippo Naldi, imprenditore editoriale e giornalista alquanto spregiudicato, nella cui parabola s’incarna alla perfezione una cialtroneria a volte delinquente a volte arruffona. Insomma, ancora una volta siamo al cuore dell’identità italiana. Ma – è questo che conta – Fasanotti non sta mai lì con il dito alzato a far la lezione: racconta di qua e di là, vaga con le sue parole lungo l’orizzonte del nostro essere in quanto popolo.

E allora, per esempio, la raffigurazione affettuosa di Leo Longanesi (nella foto) finisce per essere un po’ il nocciolo del libro. Stiamo parlando di un uomo lungamente mitizzato: abbastanza tiepidamente fascista da poter essere detestato dai fedelissimi del regime e abbastanza tiepidamente antifascista da poter essere malvisto dalla Repubblica nata il 2 giugno del 1946. Un intellettuale fedele solo alle proprie contraddizioni, che anzi del cambiare idea (del professare in contemporanea idee fra loro in contrasto) fece una filosofia, la propria ragione di vita (un po’ come il maledetto toscano Curzio Malaparte che di Longanesi è lo specchio). Ragione di vita e di successo. Perché ancora oggi amici e nemici ricordano la sagacia di Longanesi, la sua capacità di rifornirsi di idee da Vittorini come dai peggiori gerarchetti, la sua ironia, le sue battute taglienti (anche con se stesso). Dice Fasanotti: «Coltivava un orgoglio “borghese” sempre tenuto a distanza dal rivoluzionarismo». E che c’è di più italiano di questa doppiezza? Appunto: il fascista della prima ora Longanesi, che a fine regime odorò il puzzo della sconfitta e in piena democrazia lanciò affettuosi buffetti al mito del duce. Italianissimo. E dipinto con ragionevole affetto da Fasanotti proprio perché al centro di questa antinomia ci siamo noi tutti. Proprio come la Romagna e Rimini, «sempre tiepida sia col fascismo sia con l’antifascismo», scrive Fasanotti. Appunto.

Insomma, avete capito: si tratta di un libro di storie molto godibile (sorprendente seguire il sogno unitario di Artusi che, fatta l’Italia, voleva fare gl’italiani in cucina) privo di noiosità dotte (anche lì dove si argomenta della Commedia di Dante, poniamo) ma che alla fine impone al lettore più di una riflessione. Una su tutte: siamo un popolo di imperfetti che riescono a mascherare i propri limiti (e la propria miseria morale) dietro l’equivoco della focosità o della creatività. Un popolo che “tiene famiglia” dove la mitica arte di arrangiarsi non è solo una prerogativa napoletan-meridionale, ma un culto sociale che spazia di qua e di là e attraversa ideologie, politiche e culture. E geografie. Ecco, dopo aver letto di questi romagnoli viene da pensare che siam tutti uguali. Tutti noi italiani. Terroni o nordici: uguali. Altro che Lega Nord!

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