Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Paolo Fabrizio Iacuzzi

La vita a quadri

Nelle quasi sei raccolte del poeta pistoiese la sua antropologia privata. Che procede per colori che si impongono (forse il prossimo sarà il rosa) e per capitoli. L’ultimo pubblicato è “Pietra della pazzia” dove il verso conserva in sé, michelangiolescamente, qualcosa di non finito, di impuro…

Il pistoiese Paolo Fabrizio Iacuzzi, autore di importanti raccolte poetiche, funzionario editoriale e animatore del prestigioso premio “Il Ceppo di Pistoia”, nonché allievo di Piero Bigongiari, di cui ha curato parecchie opere, ha licenziato nel 2016 per Giorgio Tesi Editrice l’elegante plaquette intitolata Pietra della pazzia (48 pagine, 15 euro). È imminente l’uscita della sua prossima raccolta, Consegnati al silenzio, per Corsiero Editore. La poesia di Iacuzzi si caratterizza per una pronuncia elegante e, al tempo stesso, scabra, coniugata a forme chiuse rivisitate in maniera sapiente e originale.

Com’è nata l’idea del suo ultimo libro, Pietra della pazzia?
All’improvviso, dopo gli auguri di capodanno in versi di un amico poeta. Quei versi mi innescarono qualcosa, non so perché. Risposi in versi, e poi da lì mi accorsi che portavano altrove. Erano i primi giorni dell’anno 2015. I versi erano quelli che poi avrebbero costituito il sonetto quasi michelangiolesco che apre il libro e che metto in bocca a Giobatta Iacuzzi, il mio antenato, di cui non so nulla. Io lo vesto dei panni di un letterato ottocentesco. Erano vent’anni che questa idea mi affiorava nella mente. In realtà mi sono accorto che non era un libro a sé ma la conclusione di un altro libro: il quinto capitolo della mia “La vita a quadri”, iniziata negli anni Novanta con Magnificat (1996) e proseguito con Jacquerie (2000), Patricidio (2004) e Rosso degli affetti (2008). Si arriva, appunto, dopo quasi dieci anni a Consegnati al silenzio, il nuovo libro in uscita per Corsiero Editore. L’ho pubblicato con le riproduzioni del Fregio robbiano dell’ex Ospedale del Ceppo, in occasione del recente restauro.

 Pietra della pazzia prende spunto dalle sette opere di misericordia corporale rappresentate da Santi Buglioni nel fregio in terracotta che si trova nell’ex Ospedale del Ceppo di Pistoia, riprodotte nel libro a corredo di tre poesie per sezione. Hanno qualche rilevanza i numeri sette e tre all’interno della silloge?
In ogni serie le prime due poesie sono il sogno che Giobatta fa del Fregio. Giobatta scolpisce il suo nome e cognome con tanto di cartiglio su una delle colonne dell’ospedale, ma in realtà intende riaffermare l’onore dei suoi antenati che, a Pistoia, avevano delle magone dove forgiarono canne da fucile anche per la dinastia dei Medici. Il sogno di Giobatta vede le opere di terracotta trasformate in biscotti glassati, alla maniera di Michelangelo ma anche di Petronio. Giobatta sfregia il Ceppo col suo sogno. E nel far questo sogna me e la stirpe che verrà in seguito. In questo c’è qualcosa di epico: da Virgilio a Dante a Walcott. La terza poesia di ciascuna delle sette serie disegna un secondo sfregio: una sorta di trionfo della morte o di danza macabra che parla di una storia famigliare sullo sfondo delle tragedie del Novecento. È la costruzione di un mondo dalle rovine di un altro mondo. Tra il racconto mitico attraverso l’arte e l’esperienza della storia attraverso le vicissitudini della mia famiglia sento il bisogno di guarire la storia attraverso l’arte o viceversa di fare ammalare l’arte con la storia.

 Nelle sue raccolte è presente il tentativo di attualizzare il recupero delle cosiddette forme chiuse. Quali considera siano i suoi maestri al riguardo?
È una domanda difficile. Mi sono congeniali poeti, per motivi diversi, come Michelangelo e Caproni: il primo in quanto anche nei suoi sonetti c’è qualcosa di non finito e di impuro; il secondo perché, specie nel Passaggio di Enea, il sonetto è sull’orlo della sua dissoluzione. Non posso dire però di usare forme metriche chiuse. Invece sono da sempre affascinato dalla iterazione delle parole e dalle anafore, dalle ripetizioni. Mi affascina ritornare sulle stesse parole in maniera diversa per scandire un ritmo, chiarire le idee a me stesso e al lettore.

 Cosa pensa dei blog che si occupano di poesia?
Ne penso bene. Assolvono al compito delle riviste letterarie di un tempo e possono avere un’ampia diffusione. Penso però che annualmente qualcuno dovrebbe costruire degli almanacchi su carta per raccogliere il meglio delle poesie e dei commenti su di esse. C’è un’enorme dispersione e una scarsa messa a fuoco. Si finiscono per perdere i punti di riferimento. Spesso chi fa un blog di poesia è perché lui stesso è un poeta e questo promuove una lettura delle poesie dall’interno di un laboratorio. È il caso, per esempio, di Sebastiano Aglieco e del suo blog Compitu re vivi.

 Lei lavora presso l’editore Giunti. Pensa sia possibile trovare la chiave giusta per proporre opere di poesia in un mondo che sempre più tende a rimuoverla?
Mi piacerebbe pubblicare la poesia contemporanea con lo stesso metro con la quale faccio studiare e introdurre a volte quella classica, nella collana “Passepartout” che curo: attraverso 10 parole chiave. La poesia va sottratta al poetichese, alle note a piè di pagina, alle parafrasi. Io vorrei che si animasse attraverso delle recensioni che al massimo parlassero di una poesia. Come fa Paolo Febbraro su “Il sole-24ore”. Tutti i quotidiani, “quotidianamente” dovrebbero farlo, e non solo alcuni blog o newsletter che arrivano per email. Perché la poesia va letta anche con la coda dell’occhio mentre si legge un articolo di cronaca, nera, rosa, gialla, sportiva che sia.

 Cosa sta preparando attualmente?
Sto scrivendo il mio sesto libro, ma non so ancora dove porta: sarà spero la sesta “tempera” della mia “vita a quadri”. Un sorta di “vita in rosa”? Perché questo colore vi è già dominante. La cosa è puramente involontaria. Dopo il bianco, il blu, il giallo, il rosso e il verde dei miei precedenti libri. I colori per me innescano un’antropologia privata alla luce di un’Antropologia maggiore. Non so quando sarà concluso: i libri accelerano o decelerano a seconda della vita. Il quinto, Consegnati al silenzio che uscirà in autunno, ha avuto una gestazione lentissima e complessa dovuta all’elaborazione di due lutti: la morte di mio padre e di mio nonno. È diviso in due, ma è tenuto insieme da una “cerniera lampo”: due serie ospedaliere riunite.

 Può commentare la poesia inedita presentata?
È nata a Ponte di Legno la notte tra il 20 e 21 agosto 2016, dopo la cerimonia del Premio omonimo in cui ero tra i vincitori proprio con Pietra della pazzia. È la memoria del fuoco che a Ferragosto nella mia infanzia accendevano alla Casetta dei Pulledrari nella Foresta del Teso sull’Appennino pistoiese, quando ogni estate la mia famiglia andava in campeggio nei bungalow di tela pesante, in forma di casette, con i letti a castello. La figura femminile è quella di mia madre ma riportata verso il tempo antico e quotidiano della condivisione del pane. C’è qualcosa di magico e di rituale che ancora non so.

 

***

Fuoco di Ferragosto

Bruciavano il pupazzo la notte di Ferragosto.

Eppure sul fuoco mettevi il pane a scaldare.

La luce rosa illuminava i volti. Così ti ho visto

porgere il pane al fuoco con fare quotidiano.

 

Prendere l’olio e pietrificare un rito di eroi

uniti in cerchio. Restare china e spargere

il sale. Bruciare il pane e l’aglio e portare

alla bocca quel nulla che fa rosa l’essere.

 

Nel cielo dei fuochi sparati dare un cerchio

al pane. Ma ora al campeggio sterrato

le tende radono il prato. Da terra non nasce

 

il grano. Un cretto sigilla i grilli e le cavallette.

Da soli restare a bruciare ancora quel pane

per tenere in cerchio le nostre prime vite.

Paolo Fabrizio Iacuzzi

 

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