Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Alessandro Niero

Il signor Czarny

È l’alter ego del poeta veneto che gli ha permesso di superare un momento di stasi, diventando così centrale da giganteggiare nell'ultima raccolta. Perché il filtro costituito da un altro da sé consente di «raffreddare la materia del pensare e del sentire»…

Il veneto Alessandro Niero, slavista e docente di letteratura russa all’Università di Bologna. ha al suo attivo le raccolte Il cuoio della voce (2004), A.B.C. Chievo (2013) e Poesie e traduzioni del signor Czarny (2013). Nel 2014 Transeuropa ha pubblicato Versioni di me medesimo (128 pagine, 9,90 euro), arricchita da un’ottima postfazione di Andrea Afribo, in cui Niero, apprezzato traduttore di autori come Rejn, Stratanovskij, Prigov, Sluckij e altri, gioca sul filo teso dell’ironia intorno al concetto della creazione artistica che diviene una sorta di approssimazione rispetto all’idea originaria dell’opera. Come una versione da un’altra lingua, quella dei sensi o del cuore.

Nella sua ultima raccolta, Versioni di me medesimo, giganteggia la figura del signor Czarny, sorta di suo alter ego (non per niente Czarny in lingua polacca significa “Nero”, come il suo nome senza la “i”) che non può non ricordare il Signor Cogito di Zbigniew Herbert, poeta polacco di cui lei ha tradotto, in collaborazione con Andrea Ceccherelli, la raccolta Rovigo. Ce ne può parlare?
Il signor Czarny è nato nell’aprile del 1999, mentre mi trovavo a Varsavia con una borsa di studio. Ero, appunto, immerso nello studio di Zbigniew Herbert (in rapporto, peraltro, alla figura di Iosif Brodskij). Colpito profondamente dal suo Signor Cogito, ho pensato di darne una mia – provvisoria e in prosa, allora – versione, senza ovviamente pensare di fornire qualcosa di analogo a quanto fatto dal grandissimo Herbert, bensì piegandolo alle mie esigenze, che erano quelle di un ritorno alla scrittura dopo un discreto periodo di silenzio. Il filtro costituito da un altro da sé – alter ego e non – mi sembrava un modo accattivante di restituire all’“io” una qualche centralità, seppur depistata dall’intermediario Czarny. La reticenza a dire io – o comunque a darne una più o meno marcata esposizione – era per me, allora, un primum. Czarny ha funto da escamotage, finanche da scappatoia, se si vuole. Su quel primo grado di distanziazione si è innestata, poi – donde giunta francamente non so – un’ironia (non feroce), che mi ha permesso di “raffreddare” ancora più la materia del pensare e del sentire, lasciando, per così dire, che fosse un personaggio idealmente molto distaccato da me a farsi avanti. A tutt’oggi sono stupito che il signor Czarny abbia avuto più di un riscontro (ma anche più di un rigetto): il suo è stato un parto difficile, il classico (bellissimo, s’intende) momento in cui non si sa letteralmente in che direzione ci si stia muovendo. Czarny, insomma, mi ha tratto dalle secche di un momento di stasi (temo che sia da aggiornare la massima crociana per cui «fino a diciotto anni tutti scrivono poesie; dopo, possono continuare a farlo solo due categorie di persone: i poeti e i cretini»). Quanto a Rovigo, sono ancora immensamente grato ad Andrea Ceccherelli per avermi coinvolto nell’esperienza di traghettare Herbert dal polacco all’italiano.

L’ultima sezione di Versioni di me medesimo accoglie una serie di traduzioni dal russo. Perché ha operato questa scelta?
Traduco seriamente poesia almeno dal 1997, anche se la scrittura è venuta prima (penso che la mia prima cosa decente risalga al 1990: apre il volume Il cuoio della voce, Voland, 2004). Da allora ho sempre inteso la traduzione come attività contigua alla poesia e come scambio fruttuoso tra cose proprie e altrui. Non mi sembrava giusto che questa attività restasse fuori da un libro inteso a rappresentarmi. Il titolo stesso, peraltro, della raccolta porta tracce di tutto ciò. Non è un caso che, per Versioni di me medesimo, il mio amico e immenso traduttore dall’italiano Evgenij Solonovič abbia proposto come traduzione russa Perevodja sebja, ossia, letteralmente, Traducendo me stesso.

Lei si è dedicato in particolar modo allo studio e alla traduzione di Iosif Brodskij. Può ricordarci la sua figura?
Temo che ci vorrebbero troppe pagine.

Può parlarci della sua attività di traduttore?
Voltare poeti stranieri nella mia lingua mi ha permesso di affinare la tecnica, di entrare in contatto “carnale” con repertori di poetiche – mondi? – altrui. Мi ha obbligato a riflettere sulla mia lingua, a sperimentarne le possibilità e i limiti, a misurare le asimmetrie fra le tradizioni straniere e la nostra. Mi ha reso molto più consapevole di quanto mestiere e artigianato, coniugati con il gusto, debbano contenersi in un testo poetico (il che, ben s’intende, non significa che bastino). Mi ha, insomma, staccato definitivamente dall’idea di poesia come effusione immediata e incontrollata, ciò che costituisce il limite più macroscopico di tanti aspiranti poeti d’oggi.

Quali sono le differenze che intercorrono tra la poesia contemporanea italiana e quella russa?
La mia frequentazione della poesia contemporanea russa (intendo degli ultimi due decenni) è, devo riconoscere, saltuaria. A occuparsene seriamente è Massimo Maurizio. Per quanto posso giudicare, direi che i giovani poeti russi sperimentano una libertà di forme e tematiche inusitata. E con un pathos che forse noi non conosciamo, vista la nostra storia e storia della letteratura.

Cosa sta preparando attualmente?
Sto cercando faticosamente di mettere insieme un nuovo libro di poesie, di cui sono già uscite alcune anticipazioni sulla rivista “Atelier” e sul Quadernario 2016 di Lietocollelibri (a cura di Maurizio Cucchi). Dovrebbe intitolarsi Segno meno. Se la domanda, invece, verte sulla mia attività di traduttore, devo ammettere che, dopo un periodo frenetico (10 libri in 10 anni!), mi sono come bloccato. Fermo restando quanto detto sopra sulla fertilità dell’interscambio fra traduzione e poesia, posso dire che in questo periodo, per la prima volta, avverto una frizione fra le due attività. È come se l’energia “ispirata” che mettevo nel tradurre – e che mi faceva sentire di “fare poesia con altri mezzi” – avesse deciso di adagiarsi in un solo alveo: quello della scrittura in proprio. Di nuovo – come per la nascita del signor Czarny – non so dove mi porterà tutto ciò, ma mi rendo conto che così deve essere. E, in un certo senso, mi piace.

Lei insegna letteratura russa all’Università di Bologna. Pensa che i giovani siano ricettivi nei confronti della poesia?
Ahimè, constato dolorosamente che, tranne felici eccezioni, la poesia non gode di grande credito presso i giovani. Accusata, più o meno esplicitamente, di essere qualcosa di inutilmente complicato, fatica a farsi strada tra le menti e, purtroppo, anche tra i cuori dei ragazzi. Un docente universitario spesso si ritrova a doverla “riesumare” da una sorta di sepoltura o disincrostarla da anni di disaccordo con essa. Non sto certo ad attribuire responsabilità, che sono varie e diffuse: dico soltanto che una facoltà – se vogliamo chiamarla così – innata della persona qual è il “fare poesia”, viene, così, a essere progressivamente obliterata, dimenticando che, invece, è quanto di più naturale esista. Basta la frequentazione di un qualsiasi bambino per capire come il rapporto creativo con le parole sia quasi fisiologico.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Persasi di vista fa parte della sezione «Fotografie e autoscatti» del mio libro in fieri. Rappresenta il caso di una persona (l’“originale” è una donna: di qui il femminile «sgomenta») autoespostasi a una sorta di prolungata spossessione di sé, ossia di vita spesa ad accontentare quanto le è stato chiesto – o più o meno subdolamente imposto – da altri (che possono essere non necessariamente persone fisiche, ma anche circostanze, istituzioni, autorità di vario genere…). La persona in questione credeva in buona fede che le sue azioni fossero integralmente sue, mentre è stata come “determinata” da impulsi che le erano esterni, fino a perdersi di vista, a non capire cosa realmente vuole da sé e dalla propria vita. Ora si confronta con il risultato di tale “scollamento da sé”: un senso di mancanza, rappresentato, spero, plasticamente dalla chiusa, dove il «cuore carenato» rimanda a una nota deformazione, riferita però al petto, che si infossa all’interno, facendoci come cavo, vuoto.

***

Persasi di vista

Trascorso il tempo a soddisfare bocche

altrui credendosi nel proprio, adesso

fruga sgomenta al microscopio ciò

che le rimane dentro della semina

supposta, dello sperpero di vita

piagata al corso delle circostanze.

Spietato ingrandimento. Poi la diagnosi:

cuore carenato.

Alessandro Niero

Facebooktwitterlinkedin