Domenico Calcaterra
A proposito di "Piccoli borghesi"

Borghesia sognatrice

Il marchio editoriale Theoria torna in libreria con Pierre Drieu La Rochelle. Nel suo romanzo, il ritratto di una classe fallita, oppressa dai padri e dalla propria irresolutezza. Raccontata nel cuore del Novecento

Un autore sul quale non sono state mai del tutto sciolte le riserve da parte del pubblico, causa le contraddizioni che si annidano nel suo pensiero politico, è senz’altro Pierre Drieu La Rochelle. A darci occasione di ragionare sulla statura di uno dei più importanti scrittori francesi del primo Novecento, il ritorno in libreria, per la rinata Theoria, a quasi cinquant’anni dalla sua prima e finora unica pubblicazione (Longanesi, 1969), di un titolo forse non abbastanza noto come il corposo romanzo Piccoli borghesi (Pierre Drieu La Rochelle, Piccoli borghesi, Theoria, 2017, pp. 408, € 18,00).

Come gran parte della sua opera (Stato civile, Diario di un delicato, Gilles), anche questo libro, uscito in Francia nel 1937, scaturisce dalla naturale disposizione alla confessione autobiografica: non a caso l’evento che diede avvio alla sua stesura fu la morte del padre, nel maggio del 1934. Quel complesso rapporto con il padre, il clima della malata couche famigliare, che trovano piena trasfigurazione in un romanzo di ampia concezione, orchestrato quasi come un “dramma teatrale” in cinque atti (così nel puntuale saggio introduttivo Alessandro Gnocchi), entro un arco di tempo che va dalla fine del XIX secolo alla fine degli anni Venti del XX. Lavorando in fedeltà alla propria verità psicologica, Drieu lascia lievitare il dato autobiografico di partenza a materia per la costruzione di un senso e di una critica che aspira a una condivisione solidale da parte del lettore. Eloquente a tal riguardo ciò che scrive in una lettera datata 28 marzo 1937 e mai spedita (nella presente edizione riportata in Appendice): «La cosa necessaria, credo, è che tutti i nostri personaggi siano nel movimento stesso dei nostri riflessi quotidiani più profondi, che siano legati alle nostre difficoltà vitali».

Il dramma psicologico di Drieu è qui incarnato e trasfigurato nelle vicende di due famiglie, i nobili decaduti Le Pesnel e i borghesi e benestanti Ligneul, il cui intreccio d’interessi, la solidità economica e il prestigio sociale, trovano il punto medio della loro realizzazione nel matrimonio combinato tra i rampolli di casa, Camille e Agnès. Le traversie di questo, da subito, infelice sodalizio sono narrate dal punto di vista dei figli, Yves e soprattutto Geneviève (voce narrante del romanzo). Il fulcro attorno al quale, in maniera centripeta, orbitano i destini di tutti i personaggi è il padre, Camille Le Pesnel: per tutta la vita innamorato della sua amante parigina, Rose; vacuo e sognatore, inetto a condurre innanzi i suoi affari di lavoro («comincia, immagina gli affari, ma non riesce a finirli, a realizzarli»); sempre a un passo dall’orlo del tracollo finanziario ed esistenziale… L’inconsistenza di Camille, da «eterno bambino» che, senza convinzione, scimmiotta il mondo degli adulti, lo rende prototipo di questa «razza di uomini completamente diversa» (di cui Parigi è piena) che viene in città a «sognare fra quattro mura», mettendo a frutto tutto il valore distruttivo della loro irrisolta inadeguatezza. Risucchiati nel potenziale novero della stessa razza di «vinti a breve o a lunga scadenza», accomunati da un’asfittica cifra di destino (corrosivo memento, cui rimanda, costantemente, la figura paterna), i figli Yves e Geneviève proveranno a forzare l’inerziale puerilità delle loro vite («Bisogna combattere Camille perché altrimenti si è finiti. Noi siamo venuti al mondo per diventare diversi da Camille»). E da questo punto di vista Drieu ci consegna il romanzo della paura di non riuscire a liberarsi dall’oppressiva «eredità morale» del padre.

In verità, il titolo della prima edizione italiana (qui riproposta, nella bella traduzione di uno dei massimi esperti italiani di Drieu, Alfredo Cattabiani), invenzione longanesiana dettata dal contesto storico e dalla furente polemica sociale in corso sul finire dei Sessanta, poco rispecchia il Rêveuse Bourgeoisie dell’originale francese, quel più eloquente “Borghesia sognatrice” che sarebbe stato auspicabile qui recuperare a meglio restituire la sostanza dell’opera.

Storia di uomini e donne irretiti dai pregiudizi, stretti nella morsa delle convenienze e inconvenienze sociali, dalle private frustrazioni, dalle stimmate d’infelicità che albergano in ciascuno di essi, Piccoli borghesi funziona come una macchina teatrale in cui i personaggi, confinati entro un più angusto recinto di solitudine, giocano una violenta partita a scacchi con se stessi, agendo la famiglia borghese come il luogo della somma infelicità, per la fedeltà estrema a quei valori bacati qui violentemente contestati da Drieu: il matrimonio, il denaro, la reputazione… e che sovente troviamo stigmatizzate, con sulfurea ironia, dal graffio fulmineo della penna, con cui lo scrittore riesce a stenografare un carattere, una fisionomia, un clima sociale. Si legga un passaggio come questo: «La piccola borghesia benpensante non ama veder uscire i propri parenti dalla mediocre regolarità, da quel tempio dell’onestà di cui si considera la depositaria e la garante nella società». O ancora, a proposito dell’assurdo valore sociale del matrimonio: «le donne come Agnès vogliono tutto, l’amore e il matrimonio: è per questo che non riusciranno mai a conoscere la vita». E si potrebbe continuare.

È un occhio impietoso quello che Drieu, da entomologo dell’esistenza, velenoso burattinaio, posa sui suoi personaggi, anche verso quelli ai quali sembrerebbe, in apparenza, competere il ruolo di fustigatori dell’ipocrisia sociale imperante; come, per esempio, il dreyfusardo e radicale Gustave Ganche, dalla sincerità opportunistica al punto da riuscire autocaricaturale, perché interessato a perorare la causa personale di aspirante pretendente della sempre più disorientata Agnès, in rotta con Camille. Il credo progressista di Gustave s’incista nella sua fisionomia che lo rivela (sabotandone l’apparente acume critico) in tutto il suo conformista anticonformismo, e per ciò stesso relegandolo in un analogo «deserto morale»: ributtante nell’aspetto, dal naso enorme, uomo «terribilmente ridicolo», la cui bruttezza fisica diviene proprio l’argomento da tutti adoperato a suo danno, e di cui si serve anche la signora Ligneul per liquidarlo («Non ti sei mai guardato allo specchio, povero Gustave, non sarai certo tu a conquistare mia figlia»).

Più che una generica, per quanto feroce, critica di una società borghese implosa in una oramai conclamata crisi, non mi pare ci si discosti troppo dal vero se, superando gli immediati rimandi autobiografici che fungono da catalizzatori alla costruzione della saga famigliare, si legga il romanzo, in estrema analisi, come sconfessione e superamento della retorica del fallimento sociale («I falliti: che gente deliziosa! Sono loro che riempiono il mondo»): la vera peste che qui attanaglia le vite di tutti i protagonisti; la bestia nera che oblitera la possibilità di un’esistenza vissuta al di fuori dei legacci imposti dall’intransigente ortodossia borghese. E c’è una figura, solo in apparenza marginale nell’economia del romanzo, che agisce da indicativo disinnesco rispetto all’abisso che una simile retorica rappresenta: Edouard Nicorps, l’archeologo non particolarmente avvenente, ma di grande spirito e sregolatezza, l’uomo che ha imparato a vivere pacificato con l’insuccesso («La felicità, la felicità in persona!»), colui il quale spingerà Geneviève a trovare la sua vocazione, a mettere a frutto il suo talento di attrice. Lei, capace di maturare uno speciale attaccamento alla «eternità della vita», alla recita borghese contrappone l’assoluta fedeltà nel rendere più autenticamente veri i suoi personaggi irreali, affrancata dal rimorso che fu dei Le Pesnel (che fu di Camille, di Agnes, dei nonni) di «recitare in malafede», di piegarsi all’ala della menzogna che aveva dato fino a quel momento forma al loro vissuto.

Nonostante la trasposizione corale, al netto delle licenze narrative che l’autore si concede, il romanzo riesce, nel contempo, a non perdere la sua originaria qualità d’implicita confessione: quasi a volerci rammentare che attinge alla sua personale esperienza, a circa metà del libro, Drieu è come se ripensasse la modalità del narrato, ricalibrasse in corsa la dinamica del racconto, prendendosi la libertà di abbandonare la più distanziante terza persona per procedere con una prima persona, di una voce narrante che si rivela (Geneviève) e si fa carico in sua vece di portare a termine il racconto di quei casi di vita. Se Yves è il personaggio che lo scrittore sceglie come sua proiezione finzionale, Geneviève è l’occhio inesorabile che Drieu posa sulle vicende famigliari e sulla società del suo tempo. A lei affida, infatti, la frase forse più dura di tutto il romanzo laddove, cogliendo negli sguardi dei genitori «una specie di luce commerciale», brutalmente sentenzia: «I genitori sono… bene o male produttori e venditori di carne».

domenico.calcaterra@gmail.com

Facebooktwitterlinkedin