Nicola Bottiglieri
A proposito di “Un’educazione milanese”

Il romanzo di Milano

Alberto Rollo ha scritto il romanzo di una città e di una generazione: quella che non aveva le certezze della guerra e della Resistenza e che ha trasmesso solo dubbi ai figli

«Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, teneri e meridiani, le figure che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata, per me, questa città». I ponti sono ottimi punti di osservazione per guardare il fiume che scorre. Più ampie sono le arcate, più acqua riesce a passare. Ma se il ponte sono gli anni che uno ha vissuto, allora il fiume è fatto di tempo, e il tempo trascina molte cose con sé. Prima di tutto i ricordi, i quali hanno bisogno delle parole per essere riconoscibili. Del resto, che cosa sarebbe il tempo senza i ricordi? Un calendario senza giorni, una carta geografica senza nomi. Lo scrittore sa che tutti i fiumi diventano fontane e suo compito non è tanto quello di guardare l’acqua che scorre, ma tuffarsi in essa, nuotare senza affogare, lasciarsi trascinare dalla corrente fin dentro l’acquedotto e poi nelle condutture sotterranee fino alle fontane. Ogni scrittore sa che il libro che scrive (soprattutto se autobiografico) è la fontana alla quale si vanno a dissetare i suoi lettori… E parlando di fontane si parla di luoghi, piazze, strade e persone che li hanno fatti vivere.

I ricordi del libro di Alberto Rollo (Uneducazione milanese, Manni) allagano le strade della città di Milano del dopoguerra. Una inondazione tenace che si ferma ad alcuni crocevia prima di intraprendere una svolta, Via Copernico, Via Certosa, Via Grigna dove «si accedeva per uno stretto androne che si apriva su cortile immenso… noi stavamo all’ultimo piano… da noi si faceva il bagno in una tinozza di legno, la domenica mattina o il sabato sera… nel 1957 traslocammo da Via Grigna in via Mac Mahon».

alberto rollo un'educazione milaneseIl tempo scorre, gli anni come sassi portati dalla corrente risuonano nella piena e all’improvviso nell’acqua dei ricordi compaiono le persone. Quelle importanti sono piloni della luce contro i quali l’acqua va a scontrarsi. E fra esse Rollo non può non ricordare la figura del padre.

Qui il fiume si attorciglia su se stesso, poi scroscia come una cascata, perché il padre è la figura più straordinaria del racconto. Infatti il paragrafo più intenso del libro è I hope I die before I get old, dove si vede come l’onda della storia riesca a coprire le vite delle persone comuni. Chi è il padre? Il padre è il compagno di partito, il confidente, ma anche quello che ti insegna a riconoscere la bellezza nel lavoro, è l’uomo dei lunghi silenzi, che sa dare un peso ai gesti, alle parole, e con il quale ti devi inevitabilmente scontrare…

La città di Milano è l’alveo nel quale scorrono i ricordi, le sponde del fiume dove ha giocato una intera generazione al gioco della vita. «Da bambino non avevo nessuna idea di come fosse fatta la città in cui vivevo: sapevo che era grande perché me lo dicevano e sapevo che il centro era ben più affascinante della periferia…». Una Milano operaia, oramai antica e tagliente, che una volta era capace di camminare veloce e portarsi appresso tutta l’Italia. Decapitata il 16 dicembre 1969. Dopo lo scoppio di quella bomba tutto fu diverso, la passione fu inquinata da una sfiduciata euforia.

Quella Milano oggi non esiste più, tocca ai ragazzi di allora spiegare quanta oscenità c’è voluta per cambiarla, quanto è stato contorto diventare grandi. Perché questa generazione oramai al tramonto non ha vissuto la violenza di massa della guerra e della Resistenza, che diede valori sicuri ai padri, ma la violenza distillata del ricatto, dell’agguato, dei sequestri, del lugubre scenario dei comunicati, delle foto individuali, delle angosce vissute davanti al televisore, tutte cose che hanno dato ai figli una idea distorta della vita. Una generazione, quella dei figli oramai divenuti padri ma anche nonni, che ha dovuto ricucire le ferite di quello scempio senza entusiasmo.

Nel romanzo di Rollo, i nomi delle strade, delle piazze, delle persone (ad esempio il nome di Goffredo Fofi) non sono semplici appunti della memoria, ma parte integrante del racconto, quando non sono il racconto stesso. In Italia i nomi delle strade sono racconti ai quali non è stata data ancora la parola fine. Basti ricordare Piazza Fontana a Milano, Via D’Amelio a Palermo, Via Fani a Roma, Piazza della Loggia a Brescia e poi la stazione di Bologna, l’autostrada a Capaci, il traliccio di Segrate (del quale si parla a lungo nel libro).

Si usa molto di questi tempi proiettare i volti dei poeti o degli scrittori sulle case o sui monumenti delle città dove vissero. Lo hanno fatto con Sanguineti a Genova, con Luzi a Firenze, a Salerno addirittura hanno dipinto con vernice indelebile i versi di Alfonso Gatto sulle mura della sua città. Scrivere un romanzo autobiografico significa fare una operazione al contrario: in questo caso è la città che si riverbera nelle parole, il romanzo che diventa mappa cittadina, i libri, gli amici, gli amori che diventano paesaggio di una storia individuale e collettiva.

A Salerno, nella serata del Festival della letteratura dedicata alla cinquina dello Strega, il 17 luglio, l’autore ha definito questo libro «biografia collettiva» di una generazione che ha vissuto i valori di una città, di una idea della vita che ad un certo punto si è dissipata, dispersa in mille rivoli, fra incubi e benessere o le due cose intrecciate insieme. La biografia collettiva di una generazione che non credeva ed ancora non crede alle biografie individuali.

Vi è nel romanzo un passo che mi ha molto colpito, dal quale emerge una idea originale di poesia, si trova nel paragrafo “Gli occhi diversi”: «Sarà che ho il sangue di una sarta, ma non posso non subire l’intermittente incantesimo del tessuto diventato forma e della forma diventata promessa di corpi senza corpi». Anche lo scrittore può essere visto come un sarto di parole, che costruisce forme, seguendo le curve della storia.

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Accanto al titolo, Milano negli anni Sessanta in una foto di Gianni Berengo Gardin

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