Tina Pane
Una storia italiana

Persone semplici

«Titti scende giù in sala e comincia a darsi da fare attorno ai tavoli, saluta i primi clienti che arrivano, indossa il grembiule e si chiude con Angelo in cucina. Tra pentole e padelle riprendono a parlare, a dirsi, a raccontare»

(1992) Titti ha 35 anni. E trentacinque chili di troppo. Ha un viso campagnolo, che muta velocemente d’espressione, passando dal sorriso largo e infantile di quando ti saluta chiamandoti amica mia alla fronte corrucciata che oppone a chi non le garba. Insieme ad Angelo gestisce un ristorante che è aperto da qualche mese ma non ha ancora un nome. Il ristorante è una scommessa, un secondo lavoro motivato dalla voglia di sbariare più che di arrotondare.

Perché Titti e Angelo di mestiere fanno i sindacalisti, e l’ufficio vertenze della CGIL dove lavorano, e dove si sono conosciuti più di dieci anni fa, è un po’ la loro seconda casa. Anzi la prima, visto che ancora non convivono, lei che abita da sua madre, lui che divide una casa con due compagni.

«Quando vi sposate?», chiedono gli amici, «Cosa aspettate per andare a vivere insieme?». Ma loro sempre nicchiano, e lui, sorridendo sotto i baffi, brontola: «Quando saremo grandi».

A vederlo, quest’uomo allampanato (ha perso 20 chili da quando si divide tra il sindacato e la ristorazione), che dribbla tra i tavoli con i foglietti delle ordinazioni, i piatti e le caraffe di vino, mi chiedo cosa lo tenga in piedi per diciotto o anche venti ore al giorno. Li conosce uno a uno i clienti del ristorante, sono amici, parenti, amici di amici. La voce si sta diffondendo, e se la gente si mette in auto da Napoli o da Benevento per andare “da Titti e Angelo”, non è solo perché i loro prezzi sono bassi.

Fanno una cucina semplice, e servono porzioni abbondanti, al centro della tavola: la zuppiera ricolma di fusilli fatti a mano, i vassoi di bruschette coi fagioli o con la cagliata, montagne di piccole e tenere costolette d’agnello, e il tiramisù della casa, unico dolce per tutte le stagioni, il solo piatto che venga servito in singole porzioni, a ciascuno nella sua coppetta.

A fine serata, quando la sala comincia a sfollarsi e i tavoli sono ormai a buon punto, Titti e Angelo si concedono una piccola sosta e vengono fuori dalla cucina. Lei con un piatto di pasta che comincia a mangiare strada facendo, lui col pacchetto delle sigarette, e si siedono di lato a chi sta finendo di mangiare. Bevono un bicchiere di vino in compagnia e fanno due chiacchiere. Inevitabilmente finiscono per parlare del sindacato, così come al sindacato parlano sempre del ristorante. Hanno una doppia vita e neanche un briciolo di schizofrenia.

Si lamentano, ma appena appena, senza aver troppo l’aria di dire sul serio, che lavorano troppo, che non ce la fanno, e che prima o poi dovranno prendersi una vacanza. Ma si capisce che non fanno sul serio, che non hanno nessuna intenzione di lasciar perdere gli iscritti o abbandonare i clienti, neanche per una settimana.

Incontrandoli, a più riprese, non si può fare a meno di trovarli simpatici, semplici, e calorosi senza affettazione. Non si può fare a meno di avere la sensazione di conoscerli da sempre. Mi sono chiesta ripetutamente perché, facendo un inventario delle loro qualità. Ne avranno tante, ma non li conosco abbastanza per elencarle. Ne hanno una, sicuramente: sono puliti, sono persone pulite.

Mi chiedo perché non facciano un figlio.

* * *

(2002) Vincenzo ha solo 8 anni e già un’ombra di peluria scura sul labbro, che lo rende ancora più somigliante a suo padre. È un bambino con la faccia seria ma che si apre facilmente al sorriso. Passa parecchie ore della sua giornata al ristorante, anche se potrebbe tranquillamente starsene a casa sua, al piano di sopra. Alla fine Titti e Angelo si sono sposati che erano già incinti, e per semplificarsi la vita si sono trovati un piccolo appartamento quanto più vicino al locale. La doppia vita ora la conduce soltanto lei, perché quando al Sindacato hanno dovuto tagliare sui dipendenti, loro hanno deciso di comune accordo: Titti alle vertenze, Angelo ai fornelli. Dopo un anno è nato Vincenzo, e neanche questo ha modificato la divisione del lavoro.

Nei mesi dell’allattamento Titti si è portata il bambino in ufficio, tra le compagne ce n’era sempre qualcuna disposta a darle una mano quando lei si doveva allontanare. Ma anche dopo, il piccolino è rimasto lì invece di andare al nido, muovendo i primi passi tra cataste di documenti e fotocopiatrici, tra foto di cortei, bandiere e volantini, e la sua presenza in quelle stanze ha anticipato l’applicazione del divieto di fumare.

Una mattina, che non aveva ancora quattro anni, avendo qualche linea di febbre, è rimasto a casa col padre. Vedendo Angelo che impastava la farina con le uova per i fusilli, gli ha chiesto «Posso fare la pasta con te?», e da allora addio sindacato, è passato alla ristorazione.

A parte le ore della scuola, Angelo e Vincenzo passano insieme tutta la giornata, e la compagnia del figlio ripaga il padre della varietà di contatti e situazioni che caratterizzava la sua vita di prima. Però c’è sempre qualcuno che passa, che distoglie Angelo dalla cucina per chiedergli un consiglio, una consulenza, per saper come affrontare un problema sul posto di lavoro. Quando l’ospite va via, Vincenzo chiede spiegazioni, cerca di capire, insomma cresce già nutrendosi delle due passioni che hanno unito i suoi genitori.

Titti non arriva mai prima delle sette di sera, scaraventa sul divanetto vicino al camino i suoi chili di troppo, si toglie le scarpe e massaggiandosi i piedi comincia a raccontare ad Angelo la sua giornata, chi ha incontrato, che cosa è successo. Angelo vuole sapere, fa domande, ma arriva subito Vincenzo, che si siede accanto alla madre, le annusa il tanfo di fumo sui vestiti e interrompe il flusso delle sue parole per chiederle: «Che storia mi racconti, stasera?». Madre e figlio, allora, si concedono il loro momento, si parlano, mangiano insieme al tavolo piccolo della cucina di casa; poi lei lo accompagna a letto e lo addormenta raccontandogli le storie della gente comune come fossero le gesta di dame e cavalieri.

Solo dopo Titti scende giù in sala e comincia a darsi da fare attorno ai tavoli, saluta i primi clienti che arrivano, indossa il grembiule e si chiude con Angelo in cucina. Tra pentole e padelle riprendono a parlare, a dirsi, a raccontare. Per la sala hanno preso un cugino di Angelo che stava in cassa integrazione, e ora tocca a lui fare le curve tra i tavoli.

Quando la sala comincia a svuotarsi vengono fuori a fare una chiacchiera, il ristorante – che continua a non avere un nome – ha conservato una clientela ristretta, a Titti e Angelo gli basta di guadagnarci il giusto, e trovare sempre un amico con cui finire la serata.

Mi chiedo se sono felici.

* * *

(2012) Angelo è morto in casa, dopo tre mesi di andirivieni con l’ospedale, la mattina della vigilia di Natale, attaccato a una bombola di ossigeno che ormai non gli dava più sollievo. Aveva appena compiuto 60 anni quando una tossettina insistente aveva annunciato la malattia, ma lui, sempre con la sigaretta appesa alle labbra, non se ne era curato e a chi gli suggeriva di andare da un medico rispondeva: «Io? Quando divento vecchio».

Era riuscito a vedere il figlio diplomato all’istituto alberghiero e già imbarcato, durante l’estate, su una nave da crociera, tra i commis di cucina. Vincenzo gli telefonava ogni sera, gli raccontava la vita di bordo, le enormi cucine super accessoriate, i piatti sofisticati che mandavano in tavola e Angelo rideva, tossiva e rideva, non poteva capacitarsi di quelle portate dai nomi lunghi e immaginifici che il figlio gli leggeva dal menù.

Però anche lui, al suo ristorante, non preparava più solo fusilli e costolette: aveva messo su una carta con tre primi, tre secondi, contorni e frutta di stagione e addirittura qualche vino imbottigliato, ma solo della zona. Era di fatto un ristorante “a chilometro zero”, ma lui si era sempre rifiutato di usare quell’espressione perché gli sembrava una presa in giro per i clienti che, da Napoli o da Benevento, di chilometri ne facevano tanti, per andarsi a sedere ai suoi tavoli.

Titti invece da qualche anno non stava più bene al sindacato. Sentiva che la passione non bastava più, anzi era quasi d’intoppo, e soffriva di non poter aiutare come avrebbe voluto i precari, i ragazzi co.co.co., gli immigrati che erano sempre più numerosi e tutti quelli che continuavano a perdere il lavoro per la crisi. La crisi aveva messo in discussione il suo ruolo di sindacalista, ma prima ancora lei aveva messo in discussione l’organizzazione che le sembrava vecchia e incapace di rinnovarsi. Aveva scaricato questo senso di impotenza facendo litigate furiose coi suoi compagni, accusandoli di essere diventati dei burocrati attaccati alle loro sedie, degli ipocriti incapaci di ammettere la loro sconfitta. Ma sapeva che era solo un modo per sfogare la rabbia.

Pochi giorni dopo la morte di Angelo, era già l’anno nuovo, aveva capito che era il momento di chiudere con quella parte della sua esistenza e aveva salito per l’ultima volta le scale dell’ufficio vertenze per firmare la sua lettera di dimissioni. Nella sua immaginazione si era figurata di uscire sbattendo la porta e invece se n’era andata come una signora, col cuore greve, il passo barcollante per il lutto del marito e quello del lavoro, prendendo solo la foto del matrimonio in Comune e quella di Vincenzo a dieci anni che reggeva la bandiera rossa durante la sua prima manifestazione a Roma.

Qualcuno aveva commentato: «Se lo può permettere, tiene il ristorante». Qualche altro aveva abbassato gli occhi e, vergognandosi, aveva taciuto.

Invece lei il ristorante l’aveva ceduto subito, perché non le sembrava possibile l’idea di farlo senza Angelo e perché non voleva che Vincenzo si sentisse obbligato a rimanere, ad aiutarla.

Una mattina d’inverno piena di sole e di sconforto, dopo aver salutato il figlio che s’imbarcava di nuovo, si era seduta sul divanetto accanto al camino, ma senza appoggiare le spalle, rimanendo rigida e composta, come fosse in visita a casa d’altri. Si era guardata intorno e anche il suo appartamento le aveva confermato che era rimasta sola. Gli occhi le si erano velati di lacrime e lei, per un riflesso d’innato pudore, aveva abbassato lo sguardo alle mani, trovandole malandate e rugose sul dorso. Le aveva fissate a lungo, poi le aveva girate per osservare i palmi, li aveva sentiti caldi, e vibranti di forza in mezzo ai solchi. In quel momento, rialzando gli occhi, aveva intravisto ancora futuro davanti a se.

Mi chiedo se lo afferrerà.

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