Domenico Calcaterra
A proposito di "Quasi Grazia”

Deledda allo specchio

Con un'opera teatrale che sembra un romanzo Marcello Fois ci dà una lettura critica densa di Grazia Deledda e della sua passione per l'ineluttabilità della vita. Anche quando coincide con la morte

Il 2016 è stato l’anno dei tributi a una scrittrice a lungo non capita e oggi in verità poco frequentata dai lettori come Grazia Deledda. Una renaissance degli studi, perlopiù dal taglio biografico e che ha beneficiato di nuove acquisizioni di materiale epistolare, a testimoniare la volontà di scalzarla dall’angusta nicchia del regionalismo per consegnarla, definitivamente, al novero dei grandi autori del primo Novecento. Un’autrice che ha amato e citato Chateaubriand, che vedeva in Flaubert e Tolstoj i suoi maestri ispiratori, e che ha saputo scrutare, rimanendo pur sempre ancorata al remoto oltretomba dell’isola natia, non solo la meccanica elementare del desiderio di libertà destinato a cozzare con i legacci che società e destino frappongono, ma anche una certa nichilistica visione della vita, per cui la scrittura è stata il solo appiglio. Ecco perché ha poco senso attardarsi a ragionare ancora oggi sulla persistenza del «romanzo sardo», edificato a principiare dalla presunta specificità antropologica di un popolo e di un luogo, se già i romanzi (anche quelli più marcatamente “sardi” della scrittrice) possono essere letti come apologhi, storie di anime il cui lavorio interiore si arena attorno allo scacco, estremo, di non riuscire a svicolare dal dramma assoluto di un’inadeguatezza tout court. «Eterni personaggi», a prescindere dalla geografia che ne fa da sfondo: impelagati nei casi della vita, nelle smagliature del destino, nei legacci dei codici e dei divieti.

Marcello Fois quasi GraziaE forse l’invito più genuino verso una complessiva riconsiderazione dell’opera deleddiana ci giunge non da un critico o da un saggista, ma dallo scrittore nuorese Marcello Fois, il quale lo scorso anno le ha dedicato un’operetta teatrale in tre atti (che tuttavia sembra funzionare sempre e comunque come romanzo), dall’indicativo titolo Quasi grazia (Einaudi, pp. 136 €13,00), mutuato dalla seconda parte del titolo completo di Cosima (1937), l’autobiografia pubblicata postuma e scritta in terza persona dalla scrittrice. Lì, usato dalla Deledda per un effetto di formale distanziamento (già implicito nel ricorrere al suo secondo nome); qui ripreso da Fois per giustificare le inevitabili licenze che, nel condurre il racconto, lo scrittore si è assunto. Tre atti, tre quadri, tre momenti cruciali della vita di Grazia scelti a illustrare la parabola della sua esistenza: Nuoro, 1900 – nel momento in cui avviene, sposato Palmiro Madesani, il commiato dalla madre (così come lo immagina Fois), presa la decisione di trasferirsi a Roma, di uscire dall’isola; Stoccolma, 1926 – in una camera d’albergo, poche ore prima di ricevere il Nobel per la letteratura; Roma, 1935 – in uno studio radiologico, nel momento in cui viene a conoscenza, da parte di un imbarazzato medico, della gravità di quella malattia dalla quale non potrà difendersi.

Fois compie la scelta di leggere il romanzo della Deledda sotto il segno della grande metafora del viaggio: «Il punto è che, a differenza di quanto si creda, il destino degli insulari è di viaggiare» – fa dire a Grazia (intervistata da un giovane giornalista svedese). Plausibile punto di vista sull’autrice, soprattutto se esso si traduce in metafora doppia, errante destino di resistenza che si concreta nell’azione liberatrice dello scrivere: non è un caso che, nel novero dei pochi personaggi convocati sulla pagina da Fois per renderci la sua “quasi Grazia”, insieme al compagno di una vita e manager Palmiro Madesani, sia presente, in ciascun atto, la madre Francesca Cambosu: resa presenza addirittura fantasmatica (che incalza Grazia anche nella camera d’albergo a Stoccolma, nello studio medico a Roma), a incarnare il pregiudizio verso la coriacea emancipazione di lei («c’hai sempre avuto i grilli per la testa»), nei confronti di un mondo arcaico che vedeva la donna rivolta a tutt’altro («tempo rubato all’esercizio del fare la femmina»); per cui il dedicarsi ai libri, scrivere storie, non poteva che essere cagione di condanna e di vergogna («se la gente parla un motivo c’è»). Presa di distanza che dovette essere mentale prima ancora che fisica, e qui ricondotta a un aneddoto preciso (come la Grazia personaggio racconta ancora al giovane intervistatore svedese): la scoperta, casuale, all’età di tredici anni, della passione del padre per la poesia, rivelatagli da una raffica di vento che spalancò una finestra e fece volare dei fogli dalla scrivania del padre. Epifania di una comune provenienza, di un analogo sentire: «Da quale mondo le avesse prese non potevo spiegarmelo, ma capii che era il mondo in cui anche io volevo abitare».

Attraverso i tre icastici retabli, Fois in realtà rifà la strada evocando immagini, frammenti di ricordi; fissa la storia di un combattuto apprendistato, vissuto nella costante contesa con quel mondo (qui personificato dalla madre) da cui prendere le distanze. È nei dialoghi, nei rapidi scambi di battute che, con efficace guizzo, con fulminea evidenza, riesce davvero a estrarre la radice quadrata della poetica e della intenzione mai consolatoria della sua opera. Così alla madre che le rimprovera di rifiutarsi di esercitare la sua «onnipotenza» nelle storie che scrive, Grazia risponde che i suoi personaggi semplicemente sono quello che sono (fedeli a se stessi), e che il suo lavoro è null’altro che «rifare la vita», «ribadire l’ovvietà».

Per Grazia, dunque, «lo scrittore è uno specchio», non un commediante o un mentitore. Ma l’origine modernissima della disposizione deleddiana, Marcello Fois la incastona in un passaggio dell’Atto III, laddove Grazia, appresa la notizia delle sue tutt’altro che buone condizioni di salute, cerca di smorzare con amara ironia la preoccupazione del consorte, ché «in questa vita come si arriva ci si congeda». E spegne le obiezioni di Palmiro, che non vuol proprio sentir parlare di morte, con una non meno lapidaria e definitiva risposta (per cui è difficile immaginare una replica): «Non conosco nessuno che non stia per morire». Suggerendo che per Grazia Deledda la vita è perdita secca e che il corpus della sua opera intera può leggersi come un ininterrotto congedo, un virile addestramento a morire.

domenico.calcaterra@gmail.com

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