Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Antonio Turolo

La musa intermittente

Autore appartato, pubblica con estrema parsimonia, perché, dice, i poeti sono come i fiumi, «alcuni hanno un regime più ampio, altri meno. Guai a forzare le cose». Il suo baricentro sono i ricordi familiari e personali (fa eccezione l’ultima raccolta), e indifferente com’è agli allori, non teme di «rasentare il solipsismo»…

Antonio Turolo, figura riservata e schiva operante a Treviso, è stato allievo di Gianfranco Folena. Ha al suo attivo, oltre a qualche lavoro di taglio accademico, le seguenti raccolte: Le parole contate (1998) e Corruptio optimi pessima (2007). Ha inoltre licenziato nel 2016 la plaquette A parte il lato umano (Valigie rosse, 48 pagine, 13 euro), con cui ha vinto il Premio Ciampi. Nonostante la sua esiguità, la poesia di Turolo si configura come una delle più interessanti di quella generazione di autori, troppo spesso relegati nell’ombra, nati a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Nella sua esauriente introduzione all’ultima plaquette Paolo Maccari scrive: «Turolo, autore appartato e fedele ai ritmi della sua musa intermittente, non risponde alle esigenze dei nostri tempi affamati di etichette e di drammatizzazioni giornalistiche degli eventi culturali, senza reale rispondenza con un orizzonte di realtà condivisa e ponderata; e anche per questo il suo esempio – di ostinazione o di nobiltà, di fede nelle proprie ragioni o di indifferenza verso gli allori – ci pare sempre più necessario».
In A parte il lato umano si respira un’atmosfera claustrofobica, popolata di figure marginali: una signora trovata morta a causa della posta accumulata nella sua cassetta o un pugile gay che uccide il suo avversario per vendicarsi di un insulto. Turolo descrive, in maniera essenziale e, al tempo stesso, elegante, sempre in bilico tra poesia e prosa, queste storie minimali basate su un’umanità dilacerata, abbruttita, cinica, in cui recupera molte espressioni di uso comune nel linguaggio parlato («È risaputo che il senno del poi…»; «Tutto in regola dunque», «Passando ad argomenti più leggeri» ecc.), senza tuttavia indulgere a un eccesso di prosaicità, ma rimanendo miracolosamente in equilibrio tra registro alto e basso e facendo ricorso a un uso molto personale dell’endecasillabo sciolto. Emblematica al riguardo la lirica intitolata Medicina d’urgenza: «Chi xe morto, chi xe morto? // Alle sei del mattino, primo turno // le garrule infermiere si informavano // con allegria».

Nelle sue poesie è molto presente un’aderenza al reale che, con l’eccezione del metro adottato, è pressoché totale.
Direi che in quello che scrivo è presente una selezione tematica abbastanza ossessiva della realtà, visto che, con l’apparente eccezione dell’ultima plaquette, il baricentro è dato dai miei ricordi familiari e personali, col rischio consapevole di rasentare il solipsismo. La trappola delle ossessioni non mi piace nella vita vera, e cerco di liberarmene, ma mi accorgo che è un meccanismo che funziona nella scrittura. Si può dire sì, che la forma poetica in parte riscatta un coinvolgimento totale.

In A parte il lato umano lei descrive alcune storie ricavate dalla cronaca (il rinvenimento del corpo di una donna a causa della posta accumulata in cassetta, il pugile gay che uccide l’avversario a causa di un insulto), che, nella loro disarmante “normalità”, hanno a che fare con percorsi che portano all’annientamento e alla rovina.
A parte il lato umano
Sono cronache di fallimenti o svolte rovinose. Ma non trovo neppure artisticamente attraenti le storie di chi vince e ha successo. Casomai sarebbe stato più raffinato, se posso dire così, fermarsi prima dell’annientamento: rappresentare la solitudine degli anziani anche senza un esito clamoroso e drammatico. Voglio aggiungere che è totalmente al di fuori dalle mie corde “il canto” della disperazione dei profughi a Lampedusa o degli internati nei lager: e anzi, moralmente diffido di chi scrive letteratura su drammi di tale portata, a meno che non li abbia vissuti di persona, perché non credo sia possibile un’immedesimazione; ammiro in quel caso alcuni documentari, sul genere del grandioso Shoah di Lanzmann, o, fatte le debite proporzioni, del recente Austerlitz di Loznitsa. C’è un modo di dire, che ho sentito per la prima volta da un monaco buddhista, Antonio Satta: nei paesi ricchi (come il nostro, malgrado tutto) c’è la depressione, nei paesi poveri (dove davvero ci sono la fame e la guerra) c’è la disperazione. Ecco, la “normalità” della sua domanda ha a che fare con il primo dei due poli.

Leggendo la sua nota biografica è molto evidente lo scarto che traspare tra la sua formazione “accademica” (laurea con Gianfranco Folena, studi sul Magalotti e su Gadda) e le tematiche delle sue poesie.
Considero ancora oggi, a più di vent’anni dalla sua scomparsa, l’essere stato allievo di Folena il mio migliore biglietto da visita culturale. Su questo punto ho pronto un ricordo da pubblicare. Così come l’intellettuale che ammiro maggiormente, e che più ha influito nella mia formazione, è stato Gianfranco Contini. E non importa se si tratta di un riferimento datato. Naturalmente non esiste solo la letteratura italiana: con intensità crescente, negli ultimi anni, ho cercato di dare un’occhiata al cinema, e soprattutto alla storia dell’arte. E mi piacerebbe fare qualche escursione in ambito scientifico, pur dovendomi accontentare di informazioni divulgative. Comunque è indubbio che ci sia una cesura tra le poesie che ho cominciato a scrivere intorno ai trent’anni e gli studi universitari, che però a loro volta hanno contribuito a educare il mio gusto estetico.

A cosa è dovuto il fatto che lei pubblica con estrema parsimonia?
Non è il frutto di un calcolo. Scrivo poco, esclusivamente d’estate, quando ho la testa libera dal lavoro, e quindi pubblico poco. Paragonerei i poeti a dei fiumi: alcuni hanno un regime più ampio, altri meno. Guai a forzare le cose.

Cosa sta preparando attualmente?
Ho una serie di inediti sparsi, più qualche idea sulla falsariga dei “prosimetri” legati alla cronaca dell’ultimo libretto. Conto nel giro di due o tre estati di confezionare una nuova raccolta.

Quali sono i suoi autori di riferimento?
Ce n’è soprattutto uno, di cui io sia consapevole: Kavafis: conosco a memoria la traduzione di Nelo Risi e Margherita Dalmàti, che preferisco a quella classica di Pontani (di cui pure sono riuscito a frequentare alcune lezioni a Padova). E poi, tra gli italiani, soprattutto Saba e i crepuscolari. Anche la prosa lirica di Federigo Tozzi mi suggestiona. E, tra i prosatori stranieri, i racconti del serbo Danilo Kiš.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Si tratta della rielaborazione di un episodio di cui sono stato spettatore.

***

Turolo

La disperazione               

Proprio così ha detto, ve lo giuro.

 

Avuto già l’alloggio popolare

lei, quella che chiamavano la matta

trovò il marito morto il dì di Pasqua.

 

Restava ad aspettarla alla fermata

un letto vuoto ed una vita vuota.

Antonio Turolo

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