Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Claudio Damiani

Dentro la natura

Meravigliato e riflessivo di fronte ai minimi avvenimenti quotidiani, soprattutto quelli naturali, il poeta persegue la linea lirica della levità e della solarità. Convinto com’è che ogni individuo sia anello essenziale di una catena che collega l’intero universo

Il dettato di Claudio Damiani, autore di varie raccolte tra cui ricordiamo La miniera (1997), Eroi (2000), Attorno al fuoco (2006) e Il fico sulla fortezza (2012), è quanto mai anomalo rispetto ai modi e alle correnti attuali, in virtù di quella sorta di sguardo trasognato e innocente con il quale si approccia al reale. Si tratta infatti di una poesia che, apparentemente, non conosce alcun tipo di evoluzione, rimanendo sostanzialmente fedele a sé stessa e al proprio andamento meravigliato e riflessivo di fronte ai minimi avvenimenti quotidiani e, soprattutto, a quelli di carattere naturale. Non è un caso, d’altronde, che Damiani persegua quella linea “lirica” che da Petrarca arriva alla “levità”, alla “solarità” che contrassegna la poetica di autori novecenteschi come Penna, Betocchi e Bertolucci. Sulla scia di tale poetica si configura anche l’ultima raccolta, Cieli celesti (176 pagine, 18 euro), pubblicata nel 2016 da Fazi Editore, il cui titolo rappresenta un omaggio al compianto Beppe Salvia che con Damiani e altri autori romani condivise le esperienze di alcune riviste come “Braci” e “Prato pagano”.

Può parlarci della sua ultima raccolta, Cieli celesti?
Cieli celesti
Il titolo riprende una sezione di Cuore di Beppe Salvia, poeta che io adoro e ritengo tra i più importanti del secondo Novecento. “Celesti” non tanto per il colore, ma in quanto “propriamente cieli”, cioè i cieli come sono realmente, come li vediamo oggi, con gli occhi nostri, ma anche con quelli di quei radiotelescopi incredibili che scoprono ogni giorno pianeti nuovi simili al nostro. E in questo cielo nuovo mi appare una grande comunità di viventi, anche umani, e di questa comunità si parla nel libro. Chi siamo noi in questa comunità, che cos’è la comunità, e soprattutto chi siamo noi come singoli, individui separati, esseri effimeri che nascono e muoiono? C’è il contrasto tra il numero molto grande degli individui nella comunità, e il numero molto piccolo che costituisce l’individuo. Ma per quanto piccolo l’individuo è sempre un’entità, la sua forma poi è quella di un “anello”, immaginando l’evoluzione (cioè il tempo, o possiamo anche chiamarlo “universo”) come una catena, di cui l’individuo, per quanto piccolo, microscopico, invisibile, è un anello (in quanto attaccato a un individuo precedente e a uno successivo) e in quanto anello essenziale all’intero universo, perché rompendosi lui, tutto l’universo rovinerebbe. Il libro è continuamente un invito a pensare che se anche una cosa non la vediamo perché troppo piccola, questo non vuol dire che non esiste. Così come anche una cosa troppo grande, invisibile a noi per eccesso di grandezza, non significa, anch’essa, che non esista.
I testi (in poesia e in prosa) apparentemente separati e divisi in sezioni come nei libri di poesia, sono in realtà un unico poema. Un poema didattico, con, ricorrente, una coppia dialogante (maestro-allievo, amante-amata), un procedere per domande e risposte. Seppur a libro finito è evidente questa struttura, purtuttavia io l’ho scritto di getto e non l’ho pensata e progettata prima.

Il titolo è ripreso da quello di una raccolta di Beppe Salvia. Può ricordarci la sua figura?
Salvia è morto a trent’anni ma in quei pochi anni, prima metà degli Ottanta, ha fatto in tempo a cambiare la poesia italiana. Riallacciandosi a Pascoli e a D’Annunzio, ma anche ai classici italiani e non solo, ha riportato la lingua nella poesia, che l’aveva persa. E con questa lingua ha ricreato un mondo, di dolore e impotenza, ma anche di stupore e speranza. Salvia, e con lui “Braci”, la rivista che abbiamo fatto insieme in quegli anni, esce dal postmoderno e entra in un’età nuova, di cui tuttora pochissimi si sono accorti.

Lei organizza a Roma degli incontri dedicati alla poesia. Ce ne può parlare?
Sì si chiama Viva, una rivista in carne e ossa, è una rivista né cartacea né web: sono degli incontri mensili nella Galleria La Nuova Pesa di Via del Corso, ogni volta c’è un tema e tre ospiti (due scrittori e un artista) presentano una loro nuova opera. Tutto avviene dal vivo, senza microfoni, leggendo i testi ad alta voce, di cui ogni spettatore ha una copia sotto gli occhi. Quattro i redattori: oltre a me Stas’ Gawronski, Nicola Bultrini, Giuseppe Salvatori (artista che era anche nella redazione di “Braci”). I testi sono antichi e nuovi, con presentazioni stringatissime, ci si concentra sull’ascolto, segue sempre un aperitivo dove si dialoga, dal momento che durante le letture non ci sono interventi. Ogni volta ci stupiamo di come un argomento, anche estremamente specifico e limitato, possa avere un’infinità di facce, un’incredibile ricchezza. E come la letteratura sia il contenitore di tutto questo tesoro.

Qual è, secondo lei, la situazione poetica in Italia?
È molto buona, è un bel periodo, ci sono molte cose nuove, poco conosciute perché gli editori latitano. Le grandi collane sono scoppiate, c’è qualche piccolo editore che fa buone cose, ma per un giovane è impossibile orientarsi, considerando anche che non ci sono più le riviste. Io vedo un grande ritorno a una poesia che dice, che la smette di parlarsi addosso, ma torna a parlare del mondo, e alla gente. Sarebbe bello se la gente se ne accorgesse.

Cosa pensa della diffusione della poesia nel web?
È una cosa ottima, è possibile trovare molti testi poetici. Il problema è che mancano editori nel web, luoghi dove avvengano scelte e chiunque, visitandoli, possa trovare indicazioni, possa essere guidato. Al momento è un mare in cui c’è tutto ma non ci si orienta.

Quali sono gli autori classici che ammira di più?
Sono tanti. Omero. Gli antichi latini, Orazio e Virgilio soprattutto, ma poi tutti gli elegiaci. L’età d’oro della poesia latina, che si consuma nel giro di pochi decenni, è forse qualcosa che non ha paragone in tutta la letteratura mondiale. Di loro mi stupisce la vivacità, l’incredibile realismo. Degli italiani Petrarca e Pascoli. Poi i grandi classici cinesi (Po Chu-I, Li Po, Tu Fu), anche persiani (Khayyam, Hafez, Sadi) e indiani (Kalidasa).

Cosa sta preparando attualmente?
Ho una raccolta finita inedita che si intitola Endimione, tratta dell’amore e del tema della luna, notturno. Se Cieli celesti è la parte razionale, questa è quella irrazionale, telepatica. Ho poi un volume quasi finito sul luogo natale dove ho passato l’infanzia, un villaggio minerario nella Puglia del nord, che si intitola La miniera di San Giovanni Rotondo.

Può commentare la poesia inedita presentata?
La poesia è tratta da Endimione, una mia raccolta inedita praticamente finita, ma che aspetto a pubblicare perché è appena uscita Cieli celesti. Endimione si riferisce alla figura mitologica e all’amore tra lui e Selene, la Luna. Il tema notturno, dell’invisibile, della comunicazione a distanza, telepatica, occupano questo libro, che è sull’amore e sulla donna come essere lunare. Il tema di questa poesia è la relazione tra uomo (in questo caso donna) e natura, che è un tema a me caro perché io penso che l’uomo sia dentro la natura, parte di lei, intelligente ma non unica, primo perché penso che sia intelligente la natura tutta nel suo complesso, non sia cioè qualcosa di meccanico, ma qualcosa, invece, di pensante; secondo che non sono gli uomini a essere gli unici intelligenti, in questo nostro mondo e negli altri che, ormai sappiamo, sono pieni di vita, essendo materia e vita strettamente collegate, anzi in diretta continuità evolutiva.

***

claudio_damiani

Entrando nella selva fui preso da un pensiero:

c’era una relazione tra le forme degli alberi

e te, anche gli odori, l’aria fine del bosco,

quell’ombra umida e fresca

e quei ronzii, quei suoni come fossero i respiri

degli alberi. Anche mi pareva

che il modo che avevano gli alberi di correre

e di venirmi incontro salutandomi contenti

assomigliasse ai tuoi moti,

che ci fosse una relazione col modo

di originarsi, in te, del movimento.

I baci poi sulle foglie assomigliavano ai baci

sulle tue guance, e ai tuoi occhi sorridenti

assomigliavano le loro palpebre semichiuse nell’ombra.

Il fatto che ci fosse una relazione

tra te irraggiungibile, eterea

e loro così quieti e vicini

– cui potevo stare accanto stando in piedi,

o seduto, e toccare i loro tronchi –

era una cosa che mi sembrava incredibile.

Claudio Damiani

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