Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Massimo Morasso

Canto di pietà

L’ultima raccolta del poeta genovese “L’opera in rosso” riflette sulla precarietà dei nostri tempi senza abbandonare il dialogo fra il mondo del vivente e quello dei morti che ci abitano. Perché alla maniera del maestro Mario Luzi, la sua è una poesia che interroga la realtà e il mistero che la percorre

Autore di svariate raccolte poetiche tra cui La caccia spirituale (2012), nonché di libri compositi come Il mondo senza Benjamin (2014), il genovese Massimo Morasso è uno degli autori più consapevoli e avveduti della generazione degli autori nati tra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta. L’ultima sua silloge, L’opera in rosso (Passigli, 112 pagine, 14 euro), pubblicata nel 2016, si configura come un lavoro a tutto tondo, molto omogeneo e, come rileva Giancarlo Pontiggia nella sua nota, «limpido e febbrile, visionario e sentenzioso». I temi della morte e dei ricordi costituiscono il fuoco «che c’incenera /e ci stacca», da cui si dipanano come scintille le immagini distorte di un’umanità frustrata e dilacerata, che si muove sullo sfondo di un passato che, attraverso il vissuto, si fa storia.
Il dettato, caratterizzato da una cadenza luziana, assume di volta in volta tratti sapienziali (i riferimenti a Kierkegaard e Benjamin) o aforistici: «Con quanta fatica / sto imparando a farmi amico / di ciò che mi condanna». Nonostante l’assunto inaugurale del libro («Davanti al Mac, io sono un amanuense medievale»), L’opera in rosso si interroga sulla precarietà che contrassegna questi nostri tempi dove «il nostro, non lo senti?, / è un canto di pietà».

Il tema della morte – e dell’ininterrotto dialogo con i morti – è molto presente nella sua ultima raccolta.
L'opera in rosso
C’è un filo di continuità fra i vivi e i morti, e io ho diffido dell’arroganza del pensiero che affidandosi al buon senso decide e impone di tracciare dei confini precisi, senza residui, fra il mondo del vivente e il cosiddetto altro mondo. Noi siamo abitati dai nostri morti, ed essendone abitati, in qualche strano modo li abitiamo. Non c’è bisogno di essere degli sciamani, o degli esoteristi praticanti, per avere esperienza di questa verità. In effetti, il dialogo fra vivi e morti attraversa anche il mio primo libro, Il portavoce (1995-2006). Direi, anzi, che è un tema centrale in ciascuno dei tre nodi (La leggenda della primavera, Viatico e La caccia spirituale) che lo compongono.

Si ha l’impressione, leggendo la sua ultima raccolta, che si instauri un’approfondita riflessione intorno a certe istanze gnoseologiche e filosofiche. Non è un caso che a un certo punto faccia capolino la gobba di Kierkegaard.
La poesia che mi interessa è una poesia che sposa i principi organizzativi del “letterario”, che in fondo sono il mito, cioè la storia e la narrazione, e la metafora, ovvero il linguaggio figurato, con una forma di pensiero senziente che in alcuni miei scritti ho definito “sentipensiero”, e che mi sembra sappia andare più di un passo oltre il cosiddetto pensiero razionale. Un poeta a me caro, Ernst Meister, una volta ha detto che poesia e pensiero sono “identici”. Anche per me lo sono, ma a patto, però, che il pensiero che dà sostanza alla poesia sia un pensiero animato da un quid meditativo sovra-razionale, ricco di immaginazione e sapienza anche linguistica, naturalmente. Circa il mio rapporto con Kierkegaard e la sua gobba, devo dire che anch’io come Wittgenstein ho l’impressione che Kierkegaard sia un genio di prim’ordine: uno che sa muoversi con un’intelligenza drammaticamente spirituale della realtà sul labile confine del pensiero che sta fra poesia, filosofia e teologia.

Mi è sembrato di rintracciare una cadenza luziana nei versi de L’opera in rosso. E al poeta fiorentino è dedicata una poesia.
Indocile com’ero da ragazzo, per anni non ho mai ammesso – neanche a me stesso – di avere (avuto) un maestro. E invece l’ho (avuto), ed è Mario Luzi, che era nato cinquant’anni esatti prima di me, e che andai a conoscere di persona, a Firenze, nei primi anni 80, quando io ero ancora minorenne, e lui si stava avviando verso la sessantina. Allora, amavo soprattutto il Luzi degli anni 50 e 60, mentre adesso ho capito la portata “rivoluzionaria” dell’ultima, fertilissima stagione della sua poesia. Nel testo cui lei fa riferimento, rievoco proprio il mio primo incontro con il mio fratello-maestro preferito nel suo appartamento di via della Bellariva, in Lungarno. Per quanto posso dirne io, la cadenza luziana cui accenna non è il residuo epigonico di un “influsso”, che ritengo di aver già disciolto nel corso del mio lungo periodo di apprendistato, ma una semiesplicita dichiarazione di un debito, e di una filiazione. Conclusa l’avventura impersonale de Il portavoce, mi riconosco volentieri, infatti, nel “modo” luziano di intendere la poesia, e di interrogare la realtà e il mistero che la percorre.

Oltre che poeta lei è un valente saggista che si è occupato di Cristina Campo e William Congdon. L’ultimo suo lavoro, intitolato Il mondo senza Benjamin, è una sorta di singolare riflessione intorno alla figura del flâneur.
Per me, Il mondo senza Benjamin è un libro-non-libro, nel senso che a differenza degli altri che ho pubblicato è un libro letteralmente sui generis, attraversato da un flusso metariflessivo tendenzialmente infinito. Nell’aura di Walter Benjamin, per frammenti giustapposti a intarsio dà corpo a una riconfigurazione post-novecentesca del flâneur che vaga a zonzo fra diversi luoghi fisici e mentali, e fra diversi saperi. Detto altrimenti, si tratta di una serie piuttosto bizzarra di meditazioni, narrazioni e rimuginii assemblati in spregio a ogni concetto di genere. Si tratta di uno zibaldone, e di un azzardo editoriale, che nasce dalla mia esigenza di mettere tutto costantemente in discussione, me compreso.

Può parlarci della sua attività di traduttore?
Io ho tradotto tantissimo. Dal tedesco e dall’inglese, soprattutto. Gli autori sui quali ho lavorato di più, per contiguità, più spesso, ma anche per contrasto, fanno parte della grande tradizione del ‘900 europeo. Mi riferisco in primis a Yvan Goll, David Jones, Ernst Meister e Claudio Rodriguez. Sul piano della riflessione, ho sempre pensato alla traduzione come a una sorta di poesia della poesia. Fra i miei venti e i miei trent’anni, la traduzione è valsa soprattutto come un esercizio di forgia e disciplina artigianale, e come argine operativo a una furia per la parola che sentivo ancora incapace di plasmarsi in forme convincenti, in uno stile. Poi, con l’andare del tempo, è diventata una compagna di viaggio, un’amica fedele con la quale ho avuto più e più “storie” nel corso della mia esistenza e che, ogni tanto riesce ancora oggi a darmi il brivido della conoscenza per ardore.

Lei ha composto un libro di poesie e uno di racconti ispirandosi a Vivien Leigh, l’attrice di Via col vento.
Per anni, ho scritto nel “segno unico” di Vivien Leigh. Oltre a Le poesie di Vivien Leigh (Marietti, 2005) e La vita intensa. I racconti di Vivien Leigh (Le Mani, 2009), ho pubblicato anche un epistolario finto a sua firma, e una raccolta di aforismi che mi è piaciuto attribuirle. Per sgombrare ogni dubbio eventuale su moventi e ragioni della mia passion leighiana, dirò che non c’entrano quasi per niente con il cinema. Ho indossato la maschera di Vivien Leigh per poter dire “io” al di fuori della trappola dell’Ego, per così dire, in margine e alle spalle del lavoro sull’identità e i suoi doppi che stavo portando avanti, nel frattempo, tramite l’esperienza paradossalmente corale de Il portavoce.

La sua produzione poetica si evolve per cicli. A cosa è dovuta tale scelta?
Non saprei. A me capita di scrivere poesia solo ogni tanto, in brevi periodi di intensa concentrazione interiore. Ciò che ne risulta sulla pagina sono i traslati allegorici di quella particolare mania che, per un po’, chissà perché, mi ha posseduto. Immagino che l’evoluzione per cicli delle mie cose in versi, possa corrispondere all’esigenza di “imbrigliare” il corso dell’immaginazione creatrice in architetture intellettuali che, sogno, siano in grado di sostenerne a un tempo ragioni e sragioni.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Col suo passo filosofico esposto in superficie, è una poesia cui tanti lettori di poesia contemporanea credo che torcerebbero volentieri il collo. Dice o vorrebbe dire quasi tutto lei, mi pare. Per cui, a me qui non resta che sottolineare la formula originale della chiusa, dove il “pensiero innamorato del vivente” non è, a ben vedere, una definizione dell’io poetante, ma il “fine” di una mente che s’interroga, e che cerca ossessivamente di capirsi.

 

***

Massimo Morasso

La bellezza. Realtà

difficile da dirsi.

Ogni cosa in sé, ogni forma

è cosa di bellezza,

un punto di partenza

che assembla ordine e disordine

spingendoli nell’alto,

su verso il regno dell’Inconoscibile.

La percepisco

io

materia incandescente

paesaggio della mente

che s’interroga, che cerca di comprendersi,

di capire il suo fine

 

che non è la perfezione, mi ripete

il più cogitabondo fra i miei doppi,

ma piuttosto pensiero, pensiero

innamorato

del vivente.

Massimo Morasso

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