Loretto Rafanelli
“Via de’ laberinti” di Roberto Veracini

Canto per Volterra

Il poeta dedica alla città toscana dove vive e lavora la sua nuova raccolta. Che è la narrazione di quel luogo, della vita che vi scorre, della sua storia antica e semplice. Un labirinto che conduce nel mistero delle pietre, nel dolore per le mura che crollano, nello sguardo isolato e sospeso nella vertigine...

Volterra a Gabriele D’Annunzio appare «dietro una calva collina di marna gessosa, su la sommità del monte come su l’orlo d’un girone dantesco, all’improvviso… il lungo lineamento murato e turrito», la città misteriosa e magica da dove vede «le Maremme febbricose/… i plumbei monti, e il Mar biancastro,/ e l’Elba e l’Arcipelago selvaggio», perché la città etrusca pare un canto degli dei, un passaggio dorato dalla vicina valle al cielo. Un luogo che incanta, che ha raccolto l’emozione dei suoi visitatori, l’amore dei poeti, come appunto D’Annunzio, dei pittori come Rosso Fiorentino, Pieter de Witte, Luca Signorelli o del narratore Cassola. Volterra è una città che rapisce e strema per la sua medievale bellezza, per il suo ruvido, orgoglioso isolamento, per la sua distanza culturale e geografica da tutto, che la fa unica e insidiosa, melanconica e terrigna. Personalmente la sento come una scossa intima, come un luogo dalla storia infinita, come una città sospesa nella vertigine, segreta e universale. E le sue vie, le sue mura, le sue porte che sempre vedo con la gioia ansimante di un innamorato, assaporo nei versi di un poeta che a Volterra vive e dove è nato, Roberto Veracini (nella foto sotto).

VeraciniLa sua nuova raccolta Via de’ laberinti (Edizioni La Vita Felice), è la narrazione di una vita nella città, la storia di una condivisione, di una viscerale intimità, dello scorrere del tempo nel passaggio continuo dei suoi abitanti, è lo sguardo, dalle mura, all’infinito del suo meraviglioso e inquietante panorama, è il ripensare agli amori della propria vita dentro quell’inerpicarsi di pietra in pietra, nello scandire del battito metallico dei secoli da Piazza dei Priori. E guardare l’orizzonte da spazi esigui, come «… una ferita/ come un segno/ o un destino», quello stare nella «città-nave arenata sul poggio a guardare il mare… con l’ascolto del silenzio e lo sguardo della tenerezza», come dice nella bella nota il critico francese Bernard Vanel. Via de’ Laberinti è anche la storia toponomastica di una parte di Volterra, è la via principale, in un fitto insistere di medievali abitazioni, nel raggio di numerose viuzze che poi sfocia in Porta all’Arco.

Ma forse Via de’ laberinti ci situa nel mistero di un vero e proprio labirinto, dove seguire le tracce del passato e ancor più del presente pare arduo. Del passato perché «ho sentito il vento, nient’altro,/ solo vento nel buio/ della strada, nelle crepe/ invisibili delle mura, dappertutto/ il vento, come un lucidissimo/ segno di un altro tempo/ inenarrabile», per la sua lontananza, per la sua indeterminata grandezza, per il suo vissuto avvolto nell’urna funeraria. Del presente perché le pietre segnano il terribile senso della perdita, quando «siamo qui, in quest’ora/ di mezza luce/ senza più sogni, ormai,/ né pace./ Lasciamo che tutto/ passi aspettando -chissà? -/ un’altra stagione/ e non ci accorgiamo nemmeno/ che fuori piove, non smette mai/ di piovere… / È rimasto davvero poco/ della giovinezza». Perdita come è la distanza dall’amore, dell’amore, ora che sono infranti i sogni e i passaggi comuni, arenati ormai in «quello sguardo sospeso/ fra l’amore e l’inverno/ e quello spazio chiuso/ inavvicinabile… / “Non ci salveremo” dici/ mentre cade la nebbia, cala/ il sipario e tutto si perde/ ineluttabilmente».

Volterra 4Amore che tuttavia ci lascia la sua tenerezza, «il tuo sorriso, quando appare/ accende il mondo, rischiara/ la vita, come se non ci fosse/ nessun altro giorno/ nessun’altra vita». È necessario aggrapparsi ai propri legami storici, alla vita che ci ha formato, a incominciare dal lavoro degli artigiani degli alabastri, quel secolare «uomo dentro un grembiule/ color del cielo, le nuvole/ d’alabastro segnano le stagioni/ che non muoiono./ … / Fra lui e la pietra/ uno sguardo, un’intesa/ un riguardo gentile/ e mani grandi, smisurate/ per capire». La storia di tanti uomini che hanno costruito la città rude e orgogliosa, compresi Oscar, Tito e gli altri, che sono la leggendaria “banda dello Zoppo”, i ribelli briganti che pur essendo della vicina Certaldo, con gli abitanti di Volterra, anarchici e rivoluzionari da sempre (a iniziare dal famoso capopopolo Giusto Landini, che sfidò la Signoria dei Medici), avevano un’identificazione assoluta. E se ora la radicalizzazione ribellistica è un po’ sbiadita, rimane un sentimento che non può perire, come Veracini ci dice in questi versi: «… Oscar, lo Zoppo,/ … gli Scarselli,/ la famiglia / come tanti altri/ poveri sogni/ di altra povera gente,/ eppure/ c’è ancora qualcuno,/ a Certaldo o a Volterra,/ che quando di loro/ si parla/ alza lo sguardo,/ si toglie il cappello,/ proprio come una volta/ quando agli anarchici/ si portava il rispetto».

Perché la storia delle genti di queste terre è una storia semplice, umile, fatta di fatica e di speranza vana, di lotte e di impegno totale, di fango e di attrezzi agricoli, di pietre lavorate, tutto ciò che non si può dimenticare, perché fissato negli itinerari cittadini e nella campagna fatta di sudore e sangue: «viviamo di questa storia, dalle mani rugose dei campi, dai maiali/ sull’aia agonizzanti, dalla luce/ del tramonto per sempre/ negli occhi…/ … dall’odore forte/ della terra e del grano, dalla miseria/ dei giorni e degli anni, dal gelo/ delle fonti…/ … dal calore/ antico delle stalle, dalle panche/ di legno segnate dall’inverno…». Vivere nella comunità, sia quell’antica e sia quella presente, vivere anche nel dolore per la fragilità della rude città, come quando le sue mura caddero (per un tratto di trenta metri, essendo franato uno sperone di roccia), «e non sembrava vero/ quel silenzio, lì davanti,// il vuoto nero/ dopo la pioggia/ e la voce che restava/ prigioniera sulla soglia». Allora ecco lo sconcerto, la ferita sulla propria pelle perché, come fosse un coro greco: «sono cadute le mura/ a Volterra/ come un’ombra fuggita/ dopo la pioggia/ e una ferita che bagna/ e risecca/ … e un vuoto che resta/ nelle ossa…».

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