Raoul Precht
Periscopio (globale)

L’epica di Walcott

Ricordo di Derek Walcott, il grande poeta antillano appena scomparso. Nei suoi versi, la forza di una contraddizione creativa: «Io sono solamente un negro rosso che ama il mare; / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell'olandese, del negro e dell'inglese, / sono nessuno, o sono una nazione»

Le “Nobel Lectures”, ovvero le conferenze tenute dai vincitori del premio Nobel dinanzi all’Accademia delle scienze di Svezia in occasione del conferimento del premio stesso, si dividono sostanzialmente in tre categorie: ci sono autori che ne approfittano per intervenire (e spendere la loro improvvisa e a volte imprevedibile autorità) su questioni di attualità politica, sociale o letteraria, altri che colgono l’occasione per descrivere la loro poetica e infine alcuni (sparuti, a dire il vero) che ne fanno un’occasione creativa, senza che questo impedisca qualche incursione nelle altre due categorie, beninteso, che consentirà loro di parlare magari anche di attualità e di politica, o della loro poetica, ma trasfigurando il tutto in una nuova opera letteraria autonoma e visionaria.

È stato questo il caso – ripeto, piuttosto raro – nell’ormai lontano 1992, di Derek Walcott, forse il più grande poeta di lingua inglese dell’ultimo cinquantennio, venuto a mancare lo scorso 17 marzo. Voglio aggiungere per inciso che la notizia della sua morte ha colpito profondamente, e soprattutto stupito, tutti gli amanti della poesia: non perché non fosse possibile (lo è per tutti, e a ottantasette anni compiuti rientra evidentemente nel novero delle possibilità concrete), ma perché la sua è sempre stata una poesia duttile, mobile e di un estremo vitalismo, tanto da farla sembrare refrattaria (e con essa il suo autore) all’idea stessa di una scomparsa definitiva.

Ma torniamo alla sua lecture: Walcott la prende apparentemente da lontano, da una rappresentazione riveduta e corretta del Ramayana cui gli capita di assistere a Felicity, un villaggio sull’isola di Trinidad. Da qui, però, e dalle sue considerazioni sull’evento teatrale in quanto tale – per tutta la vita Walcott è stato, oltre che poeta, anche un appassionato di teatro, un entusiasta animatore, drammaturgo e metteur en scène, fondatore con il fratello gemello del Trinidad Theater Workshop e in seguito, quando insegnava a Boston, del Boston Playwrights’ Theatre – passa a un’originale e profonda analisi di cosa abbia significato per lui essere un poeta delle Antille. Un poeta di lingua inglese, ma contemporaneamente esposto all’influenza benigna del francese, del creolo o patois caraibico, del fiammingo, di tutte le lingue e civiltà che nel corso dei secoli si sono fuse in quella particolare porzione del mondo, arricchendone il suolo. Dice Walcott, fra l’altro: se rompi un vaso, l’amore con cui cercherai di rimetterne insieme i frammenti sarà di gran lunga superiore all’amore con cui eri solito contemplare il vaso intatto. La metafora si applica alle Antille: le isole sembrano membra disiecta di un insieme misterioso e preesistente, e l’arte che vi si pratica è la restaurazione di un’umanità e di un vocabolario che la storia ha voluto spezzettare, ma che mantiene una propria identità. Ma la metafora investe lo stesso fare poesia: il “making of poetry” per Walcott è in realtà sempre un “remaking”, uno sforzo di riunire frammenti sparsi della memoria, locale e universale, in un processo continuo di scavo e di scoperta di se stessi. La voce individuale del poeta, prosegue Walcott, è un dialetto, che con il suo accento, il suo vocabolario e la sua melodia sfida il concetto imperiale di linguaggio, quello asservito per esempio alle istituzioni, ai tribunali, alla politica. La poesia non è che un’isola (felice, aggiungeremmo noi) staccatasi dal continente.

Derek Walcott

Walcott, che di se stesso in The Schooner “Flight” (1979) aveva detto “io sono solamente un negro rosso che ama il mare; / ho avuto una buona istruzione coloniale, / ho in me dell’olandese, del negro e dell’inglese, / sono nessuno, o sono una nazione”, analizza poi con finezza i luoghi comuni sulle isole caraibiche, la “povertà fotogenica” o “tristezza da cartolina”, come le chiama lui stesso, il pathos da Tristi tropici, per capirci, e precisa che il suo compito non è quello di ricreare l’Eden, ma di rendere la qualità prima della poesia, quella testardaggine che le permette, malgrado tutto e tutti, di sopravvivere: “I had no nation now but the imagination.” E nel far questo riabilita en passant un grande poeta come Saint-John Perse, primo premio Nobel caraibico nel 1960. (Per la cronaca, Walcott è il secondo poeta delle Antille a ricevere il Nobel, e anche il secondo poeta di colore, dopo Wole Soyinka nel 1986.) Perse, nato a Guadalupa e di lingua francese, era stato accusato di aver voluto glorificare il passato coloniale, quello delle vecchie piantagioni e degli schiavi mulatti, per intenderci; ma per Walcott sussiste nello stesso genio caraibico una specie di condanna alla contraddizione, per cui in definitiva la poesia di Perse è così elevata e importante da essere diventata parte integrante del paesaggio, al di là di ogni polemica politica a posteriori. Le Antille sono uno sforzo della memoria, di una memoria collettiva che si fa strada a colpi d’immaginazione, superando e integrando ogni occasione di rancore e cercando di sanare al tempo stesso tutte le ferite inferte un tempo dalle contingenze storiche e oggi dal turismo e dallo sfruttamento indiscriminato di cui la popolazione locale, tramite i suoi dirigenti, è ovviamente corresponsabile. Non c’è alcuno spazio per un idillio, avverte Walcott, non certo per gli indigeni, per chi vi è nato; e anzi, proprio chi vi è nato e segue una vocazione artistica deve rifiutarsi di farsi ridurre a mera macchietta folcloristica, difendere allo spasimo la propria linea e le proprie intenzioni poetiche.

Non è un caso che fin dagli esordi i versi di Walcott avessero entusiasmato, fra gli altri, un poeta come Robert Lowell, attento e sensibile alle peripezie dell’individuo nella storia. “Ho incontrato la Storia, una volta, ma non mi ha riconosciuto, / un creolo incartapecorito, pieno di verruche / come una vecchia bottiglia di mare, che strisciava come un granchio / nei buchi d’ombra proiettati dalla rete / di un balcone a inferriata; color crema il vestito e il cappello.” A questa storia con la “s” maiuscola è bene sottrarsi finché si è in tempo, sembra dire Walcott, anche perché, come spiega in The Arkansas Testament (1987), “non c’è niente da capire nella fame”, e soprattutto “ciò che sappiamo del male / è che non avrà mai fine.”

Grande virtuoso della lingua inglese, che arricchisce come abbiamo detto con abbondanti prestiti esogeni, Walcott è anche un virtuoso della luce, in particolare di quella luce dell’alba che modella le cose e gli oggetti riscattandoli alle tenebre della notte. Non a caso, dal padre acquarellista ha ereditato una forte vena pittorica. La sua poesia è il luogo dell’incontro fra il passato coloniale, con il suo fardello di sofferenze mai banalizzate, e l’esigenza di conquistare un’identità fondata su un linguaggio ricchissimo, di celebrare la terra caraibica, non più periferia ma autentico cuore dell’impero, per la sua inesauribile e lussureggiante dovizia; ed è anche e soprattutto il luogo in cui immagini forti – la Babele genetica, il viaggio e l’esilio, la nostalgia e la malinconia, l’oceano come quel “suono della marea” di cui parlava Brodskij in una famosa prefazione – riescono nell’ardua impresa di rappresentare una sintesi di secoli di malintesi e incomprensioni fra primo e terzo mondo. Una sintesi dal respiro epico, ambiziosa, impostata su delle tele di grandi dimensioni, di dimensioni, appunto, oceaniche: perché a partire dal suo Omeros, del 1990, in cui la guerra di Troia è ricreata come lotta fra pescatori delle Antille, fino ai toni più metafisici e malinconici del più recente White Egrets (2010), Walcott è stato l’ultimo poeta epico, e forse l’unico dei nostri destrutturati tempi.

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