Giuliana Vitali
Un racconto inedito

Acquamarcia

«Dal soffitto scendevano delle gocce d’acqua che avevano riempito fino all’orlo il secchio sul pavimento. Adesso l’uomo traeva dei lunghi respiri, ebbe un conato di vomito alla puzza di uva fermentata e sale»

Aveva in testa le voci dei due uomini che lo trascinavano giù. Le gambe pesanti scivolavano sugli scalini e a ogni colpo strizzava gli occhi per il dolore alla costola rotta. La saliva cadeva sul collo sudato, bagnando il panno che stringeva la bocca.

– È gruossu chistu fìgghju e’ bucchino – fece uno, la cenere della sigaretta gli cadde sui peli arricciati del petto.

Entrarono in una stanza buia, districandosi tra i cestini di vino per terra.

– Uno, doje e trè! – e lo buttarono dentro a una cassa di legno. Uno prese un fazzoletto dalla tasca e si asciugò la fronte, l’altro aveva in mano una sigaretta e l’accese. L’uomo da dentro si dimenava, cercava di gridare. Cominciarono a legare i piedi e i polsi con i fili di ferro, così stretti che le caviglie presero a sanguinare. Non si muoveva più, quando i loro passi si erano allontanati. La porta si chiuse con due mandate alla vecchia serratura. Era solo.

Dal soffitto scendevano delle gocce d’acqua che avevano riempito fino all’orlo il secchio sul pavimento. Adesso l’uomo traeva dei lunghi respiri, ebbe un conato di vomito alla puzza di uva fermentata e sale. Faticava a tirarsi su, induriva la pancia ma le cosce erano bloccate più in alto della testa. Di nuovo la porta si aprì. Il piede zoppo di Don Raffaele strascicava per terra insieme ai passi leggeri di Maria. La lunga treccia della bambina si era posata sulla faccia dell’uomo, gli sguardi si incrociarono.

– È ìsso, papà. – andò a sedersi su uno sgabello.

Don Raffaele si era tolto il cappello, sistemandolo sul tavolo di legno macchiato di aloni rossi.

– E allora? Che si dice? – domandò, mentre frugava tra le bottiglie sulle mensole. – Ah, eppure tieni ragione. Nun può parlà. Nennè, bella e’ papà, levaci chella cosa racòppa a’ vocca. Vai bella e’ papà, vai. Nun tené paura.

Con la fronte corrucciata, Maria liberò la bocca dell’uomo che con lo sguardo spiritato le chiedeva aiuto. Ma lei lo scrutava in silenzio, con le fessure nere, vitree degli occhi. Buttò dietro la treccia e gli sputò sulle labbra screpolate.

– Va’ cchiù meglio mo’, o no? – fece Don Raffaele. Batteva piccoli colpi per terra, con lo scarpone nero con la zeppa. L’altro non rispondeva, allora si avvicinò inclinando di mezzo centimetro la cassa.

– Vi prego Don Rafaè! Nun o’ facite!

– Allora a’ voce a’ tenite, vedete?

La bambina ruotava su sé stessa, seduta sullo sgabello girevole.

Napoli20– Marì, te lo ricordi come diceva tuo nonno? Perché o’ sapite, mio padre era un grande uomo. Mi ha insegnato a campare. Ascoltate bene, mi diceva sempre: chi troppo magna, s’affoca. E voi, mangiate troppo. – fece ridendo mentre gli dava qualche schiaffo sulla pancia. Proprio sulla sedia poco distante dalla cassa, c’era una scatola di sale. La stava aprendo con un coltellino, versava il contenuto nelle mani minute, poste a cucchiaio, della figlia. Attenta a non farlo cadere, arrivò fino all’uomo e lo lanciò addosso come fosse una manciata di coriandoli e quello urlava mentre i granelli si attaccavano alle ferite sui polsi. Così, fece avanti e indietro per un po’ di volte.

– È bella mia figlia, è vero? Rispondete… è vero?

– Si, si… ma io… – disse l’uomo piagnucolando.

– Da grande addiventerrà na’ guagliòna ancora cchiù bella. Marì, a’ papà, piglia lo straccio con l’acqua.

La testa non arrivava all’estremità più alta del cassone, ci passò sotto. Si chinò sul secchio, afferrò lo straccio imbevuto d’acqua mostrandolo al padre che fece cenno con la testa di andare avanti. Con le braccine nude strizzò il panno sulla faccia dell’uomo tenuta ferma da Don Raffaele. Cercava di buttare fuori trattenendo prima il respiro e poi soffiando. I rivoli però si insinuavano nelle narici, arrivando alla gola. Tirava le braccia verso l’alto, il ferro che stringeva lacerava ancora di più i tagli.

– Una volta papà mi aveva picchiato con la coda del maiale che stava appesa ddinta a’ stanza soja. A’ piccirillo ero un diavolo. Mi ero permesso di dare uno schiaffo alla figlia di un amico suo. Si steva pazziando, è o’ vero. Ma le femmine non si toccano. E voi invece che avete fatto?

– Don Rafaè, vi prego basta, basta!

– Marì, tu sei sicura che è stato lui?

– Si papà. Mi ha pigliato asùtta a’ gunnella. Stavamo solo io e isso.

– E io a mia figlia le credo. – mormorò, accarezzandole la guancia.

– Aggio sbagliato, scusa Marì!

Inzuppava lo straccio, ancora una volta e lo premeva sul naso. Il petto dell’uomo batteva all’impazzata, le vene del collo si indurivano mentre la cassa si riempiva di sale e acqua. Don Raffaele stappava la bottiglia di vino che aveva preso dallo scaffale, poi la poggiò sulla tavola.

– Deve pigliare aria, sennò ha un sapore cattivo. Poi lo sapete mio padre che mi diceva quando scappavo dalla coda del maiale? Quanno si’ ‘a ‘ncunia, statte; quanno si’ martiello, vatte, faceva. E io ero incudine, mi dovevo stare. Mo’ il martello sono io.

Maria si abbassava le maniche della maglietta, asciugandosi i palmi sui pantaloni. Il padre la congedò e andò via. Riempiva un bicchiere di vino che assaporò soddisfatto. Buttò un’occhiata nell’angolo dove c’era avvolto il tubo di una pompa collegata a un rubinetto. L’uomo con le spalle immerse nell’acqua, aveva il fiato corto. Adesso non aveva più la forza di muoversi.

– Potrei uccidervi, ma non lo faccio. Vi perdono. – disse, appoggiando il calice vuoto sul tavolo. Si avviò piano verso l’uscita.

– Tra poco vi portano a casa. – aveva sbattuto la porta dietro di lui.

L’uomo aveva chiuso gli occhi, la pelle era diventata livida per il freddo. Non sentiva più le gambe e le braccia. Qualcuno era dentro che girava la maniglia del rubinetto e l’acqua cominciò a uscire dalla pompa.

– Chi è? – chiese con voce rauca, spalancando gli occhi. La treccia gli attraversò la fronte. Maria aveva ficcato il tubo nel naso dell’uomo. Stringeva i denti mentre cercava di tenere con forza la pompa che si muoveva mentre l’acqua, con violenza, ci passava dentro.

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