Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Storia di CeccoNetzer

Quarant'anni fa morì Luciano Re Cecconi, campione biondo di una Lazio violenta, poco convenzionale e vincente. Tutti dissero che morì per uno scherzo, ma davvero le cose andarono così?

A quei tempi c’erano molti ragazzi, tifosi della Lazio, che dipingevano di giallo la testa del pupazzetto del Subbuteo e gli appiccicavano il numero 8. Il numero 8 era Luciano Re Cecconi da Nerviano, vicino Milano, biondo come un tedesco, quasi albino, che aveva fatto la via degli emigrati al contrario, dal Nord al Sud, dalla Pro Patria al Foggia alla Lazio, dalle autocarrozzerie ai campi di calcio, dalle poche migliaia di lire a settimana in un’officina o in un negozio di frutta ai milioni degli ingaggi del pallone. Perché lui aveva lavorato sodo fino ai 17 anni. Lo chiamavano Cecco, ma anche CeccoNetzer, per via di quella chioma lunga e dorata che lo faceva assomigliare a Netzer, centrocampista alemanno del Borussia, in quegli anni, metà Settanta, stella del Real Madrid.

Lo chiamavano anche Volkswagen perché in campo non si fermava mai (una volta il dottore della Lazio, Ziaco, gli disse che era il responsabile della crisi respiratoria di Benetti: a furia di correre aveva spompato il roccioso centrocampista del Milan), e perché sembrava davvero uno nato a Wolfsburg, la casa del Maggiolino. Re Cecconi, un cognome singolare, storico, da guerre di indipendenza: il “Re” tra nome e cognome dei suoi antenati era stato messo da Vittorio Emanuele II, come segno di riconoscenza del Savoia alla gente di quelle parti che lo aveva ben accolto e aiutato nel corso dello scontro di Magenta con gli austriaci. Lo chiamavano anche il Saggio, perché in quella Lazio schizofrenica fatta di clan, pistole, saluti romani e scudetto, era il più tranquillo, allegro ma non un esaltato, il punto di riferimento di Tommaso Maestrelli, l’allenatore della vittoriosa cavalcata del ’74.

Maestrelli e Re Cecconi, quarantasette giorni da un funerale all’altro. Un ricordo struggente di quella impresa in serie A. Compiuta da quel gruppo rissoso, violento e invincibile che capovolse le gerarchie e andò a vincere uno scudetto il 12 maggio 1974, la domenica in cui gli italiani dissero che la legge sul divorzio non doveva essere toccata. Chinaglia e Wilson da un lato, Martini e Re Cecconi dall’altro, compagni e rivali. Come nella partitella del venerdì che lo stesso allenatore trascinava fino a sera, fino a che non si fosse raggiunto un pareggio: con quelli in campo che se le davano di santa ragione, meglio se finiva in parità. Spogliatoi separati a Tor di Quinto ma anche posti lontani sul pullman. Gente che girava con le pistole, quelli che nell’hotel del ritiro al 16° chilometro dell’Aurelia spegnevano le luci dei lampioni sparando: «Perché nessuno voleva alzarsi dal letto di notte e chiudere le luci esterne». Pistoleri, le armi le aveva portate Sergio Petrelli, detto Pedro come i personaggi degli spaghetti-western, padre partigiano. Re Cecconi e Martini si lanciavano con il paracadute per vincere la paura: «Lo abbiamo fatto anche per l’Unicef. Forse l’Unicef è fascista?» si chiedevano i due quando rimproveravano loro le simpatie politiche e quell’aria un po’ sbruffona.

scudetto lazio 1974Una squadra, quella del ’74, che ha alimentato la fama di un ambiente e una tifoseria in gran parte di destra, fascista (ma oggi ci sono anche gruppi di tifosi che amano chiamarsi “laziali e antifascisti”), protagonista di tanti episodi razzisti. Perché Martini, che è stato anche deputato di An, proclamava la sua ammirazione verso Almirante e dichiarava di votare Msi. E Wilson votava “sì” sul divorzio. Perché Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Occorsio, si autodefiniva un «lazifascista» così come Alessandro Alibrandi e Paolo Signorelli. Di Canio era ancora lontano ma i bracci della curva erano già belli tesi. Quella curva che accoglieva l’attaccante del Perugia, Paolo Sollier – militante di Avanguardia operaia, che aveva definito la Lazio «la squadra di Mussolini» – con il coro <Sollier boia>.

Quel manipolo di pazzi, la domenica era capace di trasformarsi e di diventare un solo uomo, una sola volontà, senza divisioni, antipatie e contrapposizioni. Nel racconto del popolo laziale, c’è una partita che viene prima di tante altre: Lazio-Verona, 14 aprile 1974, a cinque giornate dalla fine del campionato. I biancocelesti giocano un primo tempo disastroso, conclusosi con i veneti, ultimi in classifica, che vincono 2-1. La squadra sta per rientrare negli spogliatoi ma Maestrelli è infuriato: «Tornate subito in campo», ordina. Gli stessi tifosi a chiedersi: ma questi non si riposano? L’allenatore li espone quasi come ad una gogna e gli fa una lavata di capo. I veronesi li trovano già pronti per ricominciare. Assatanati, imprendibili. Garlaschelli, Nanni, Chinaglia, risultato ribaltato: 4-2. Lo scudetto si avvicina. La Lazio è campione d’Italia con due lunghezze di vantaggio sulla Juve. Quella stagione vince 18 partite (e tutte e due i derby con la Roma) e ne perde solo 5, 7 i pareggi.

maestrelli chinagliaPoi è successo di tutto come se si fosse abbattuta una maledizione: morti premature, incidenti, retrocessioni, calcio scommesse, mandati di cattura e carcere. Maestrelli, Re Cecconi, Frustalupi, Chinaglia. Ma anche il povero Vincenzo Paparelli, ucciso da un razzo sparato dalla curva romanista, e Gabriele Sandri, colpito in autostrada da un poliziotto. Unica festa, lo scudetto del 2000, quello di Nesta e Mancini.

Luciano Re Cecconi morì per uno scherzo: «Fermi tutti questa è una rapina» disse entrando in una oreficeria. L’orefice prese la pistola e gli sparò: pum. Accadde quarant’anni fa. Ma i dubbi su come andarono veramente le cose sono aumentati anziché diminuire.

Martedì 18 gennaio 1977, verso le ore 19,30. A Roma fa freddo e piove. Il clima è cupo, e non solo per ragioni meteorologiche. Sono anni difficili, anni di piombo, un crescendo di delitti, rapine e sequestri, la criminalità comune e i terroristi si finanziano con assalti ai negozi e altri crimini. Il clima è teso in tutto il Paese: a febbraio Luciano Lama verrà cacciato dalla Sapienza, contestato dagli autonomi. La sera i negozianti temono agguati negli istanti che precedono la chiusura dell’esercizio.

luciano re cecconi 2Tre amici passeggiano per il quartiere Fleming, un quartiere-bene, una zona “sanbabilina” come tante altre a Roma a quei tempi: i Parioli, la Balduina, Vigna Clara. Presidi dell’estrema destra. Sovrasta Tor di Quinto, campo di allenamento, allora, della Lazio. La collina Fleming è un posto molto frequentato dai giocatori biancocelesti che hanno nel bar Fiocchetti il loro ritrovo. I tre sono: Luciano Re Cecconi, Pietro Ghedin, calciatori, e Giorgio Fraticcioli, un profumiere. Quest’ultimo deve consegnare dei deodoranti ad un orefice che si chiama Bruno Tabocchini che ha il negozio, un piccolo esercizio, neanche ad un centinaio di metri dalla profumeria, in via Francesco Saverio Nitti numero 68. L’insegna indica: Laboratorio d’arte orafa. Fraticcioli bussa con le nocche sulla porta d’ingresso di vetro. Tabocchini gli fa un cenno come per dire: chi sono quei due? Lui non segue il calcio, non conosce i calciatori. Fraticcioli lo rassicura: stanno con me. Entrano. Dentro quel buco – la stanzetta misura 2 metri e 10 per 2 metri e mezzo – c’è un sacco di gente, anche tre bambini. «Apro. Mentre il profumiere viene verso il banco, noto uno dei due, quello biondo. Ha un volto particolarmente bianco e tirato. È una faccia sconosciuta ma dura, tesa, con qualcosa di non comune che polarizza la mia attenzione. Ha un’aria minacciosa con la mano destra nella tasca, sollevata verso l’alto» dichiarerà al processo Tabocchini (da Aveva un volto bianco e tirato. Il caso Re Cecconi di Guy Chiappaventi, edito da Tunué. Il giornalista, che si prese, tra l’altro, uno dei tanti vaffa di Bossi ai cronisti, è inviato di La7 e sulla Lazio di quegli anni ha scritto un altro interessante libro, Pistole e palloni, riedito recentemente da ultrà sport). Tutto succede in pochi attimi. I tre entrano, il profumiere posa le boccette di deodorante sul bancone, «Fermi tutti…», Tabocchini prende la pistola che ha nella fondina allacciata ai pantaloni, una 7,65 senza sicura, prima la punta su Ghedin che alza le mani d’istinto, e poi su Re Cecconi e fa fuoco. Il biondo crolla a terra ha solo il tempo di dire, stando a quanto dicono il gioielliere e lo stesso Ghedin: «Ma era uno scherzo…». E poi sentendo forse la vita andar via: «Ghedo, non ti muovere, aspetta…».

Ghedin riempirà i taccuini dei cronisti subito dopo la tragica vicenda: «Io gli ho detto: “Ma che fai, ancora la parte del morto? Dai, lo scherzo è finito, alzati…”, ma ho capito subito che il povero Cecco non scherzava affatto». Questo al Messaggero. E a Stampa Sera: «Era uno scherzo soltanto uno scherzo. Luciano voleva mettere un po’ di paura al gioielliere che invece ha reagito in maniera imprevista. Quando Luciano ha detto: “Fermi tutti, è una rapina”, quello ha tirato subito fuori la pistola e l’ha puntata su di me. Allora lui ha spostato l’arma su Luciano e ha sparato un colpo solo, al cuore…». Ancora al Corriere della Sera: «Il Cecco mi ha detto che quello si era attrezzato come in un bunker e poi: “Adesso gli facciamo uno scherzo”. Ho sentito che diceva: “Fermi tutti questa è una rapina” e l’altro si è girato e teneva la pistola nelle due mani». Una volante della polizia trasporta la vittima al San Giacomo ma per Re Cecconi – che ha compiuto 28 anni da un mese e mezzo – non c’è più nulla da fare. L’orefice viene arrestato ed accusato di “eccesso colposo di legittima difesa putativa”. Rischia cinque anni di carcere.

luciano re cecconi3I ragazzi che dipingevano di giallo i pupazzetti del Subbuteo si mettono a tavola per la cena con i genitori e vedono una cosa strana al telegiornale della Rai: Emilio Fede comincia a dare le notizie con una grande foto di Cecco alle spalle.

Il processo per direttissima si svolge poco dopo il fatto. E dura pochissimo. Il tribunale è affollato da commercianti e gioiellieri: «Tabocchini libero», gridano. Lo stesso giorno in cui inizia il processo, il 26 gennaio, uno di loro viene ucciso a Verona durante una rapina: lo ammazzano a sangue freddo, senza che il poveretto abbia reagito. La sentenza arriva pochi giorni dopo. Il tribunale è presieduto da Severino Santiapichi, magistrato che conosceremo poi per il caso Moro e l’attentato a Giovanni Paolo II. Ed è una sentenza di assoluzione. Santiapichi legge: «In nome del popolo italiano… la quinta sezione del tribunale di Roma assolve Tabocchini Bruno dal reato ascrittogli, trattandosi di persona non punibile per aver agito in stato di legittima difesa putativa. Ordina l’immediata scarcerazione dell’imputato, se non detenuto per altra causa». Nell’aula si leva un boato, scrosciano applausi, Tabocchini piange. Le polemiche non si placano. Alberto Bevilacqua scrive sul Corriere della Sera: «C’è una legittimazione di destra che ha assolto Tabocchini». Arturo Gismondi commenta su Paese Sera: «Una sentenza di longanimità e di clemenza, che avesse condannato l’atto e salvato l’uomo, sarebbe stata certo di compromesso. Sarebbe risultata, però, più rassicurante di un’assoluzione che incrina nel dubbio il principio dell’inviolabilità della vita, per affidarlo, nella pratica, alla valutazione soggettiva di pericoli, anche se presunti, da sventare». L’Unità titola: «Precedente pericoloso. Il giudizio suona come incentivo a una giustizia privata inaccettabile». Bettino Craxi, segretario del Psi, osserva: «È un incoraggiamento alla pratica del grilletto facile…». La Dc invece plaude: sentenza coraggiosa. Emma Bonino constata che «…ormai siamo alla giustizia sommaria».

La vicenda giudiziaria del caso Re Cecconi si chiude rapidamente e in modo strano. Il pm Franco Marrone, una “toga rossa” perché considerato vicino alla sinistra extraparlamentare, tra i fondatori di Magistratura democratica, interpone appello. Ma non lo fa la Procura generale: a giugno rinuncia a chiedere un giudizio di secondo grado. I familiari non chiedono la revisione del processo, si rassegnano, la moglie Cesarina che nel frattempo è tornata a Nerviano, lamenta soltanto, un anno dopo, che la Lazio si sia già dimenticata del marito. I Bergamini, per dire, non hanno mai smesso di chiedere di fare luce sulla morte di Denis, il calciatore del Cosenza “suicidato” in Calabria. Il figlio di Re Cecconi, Stefano, che aveva due anni al tempo dell’uccisione del padre, oggi si batte però affinché venga restituita la dignità al genitore. Non gli va che la morte del padre passi per una bravata, per una goliardata di un calciatore stupido e un po’ fascista: «Hanno costruito addosso a mio padre questa immagine, sono riusciti a farlo passare per un cretino ma tutti di lui conoscono il primo tempo, manca il secondo, nessuno che si faccia domande, che indaghi, che cerchi altre verità. Se avesse giocato nella Juventus, le cose al processo sarebbero andate allo stesso modo? Conveniva a tutti chiudere questa storia velocemente. Lui era morto, i gioiellieri erano un potere forte, una lobby schiacciata dalla violenza di quegli anni, l’opinione pubblica era in gran parte innocentista e voleva l’assoluzione di Tabocchini. Perché non sono stati fatto gli altri gradi di giudizio?».

Re_Cecconi_MaestrelliAd interrogarsi sull’esatta dinamica dei fatti ci si è messo un altro libro, Non scherzo. Re Cecconi 1977. La verità calpestata, di Maurizio Martucci (Libreria Sportiva Eraclea), già uscito nel 2012 e rimandato nelle librerie lo scorso anno. Martucci scrive che Re Cecconi quella frase fatale non l’ha mai pronunciata. La difesa dell’imputato fu abile a far passare questa tesi. Sostiene che si trattò di una disgrazia, al gioielliere partì il colpo. Punta sulle contraddizioni dell’orefice che, dopo aver giurato sul «Fermi tutti…», confesserà ad un certo punto che «Re Cecconi non ha fatto nulla che mi potesse far pensare ad una rapina». Evidenzia la retromarcia di Ghedin: «Giudice Santiapichi a Pietro Ghedin: “Le devo fare qualche contestazione perché le sue dichiarazioni rispetto a quel che disse alla polizia non concordano”». In effetti, Ghedin in aula cambia clamorosamente versione e dà la colpa ai soliti giornalisti di aver travisato le sue parole. In Aveva un volto… si legge questa deposizione del calciatore in aula: «Io sono rimasto vicino alla porta, ho percepito lo sguardo del gioielliere fissarsi insistentemente su di me… il gioielliere mi ha guardato, ha spostato la mira e ha fatto fuoco su Re Cecconi. Luciano aveva sussurrato qualche parola, ma non so che cosa abbia mormorato…». Il presidente chiede se Re Cecconi gli abbia detto qualcosa prima di entrare nel negozio, se insomma abbia voluto fare uno scherzo. La risposta di Ghedin è: no.

Ghedin aveva negato che si fosse trattato di uno scherzo anche la notte dopo quella tragica sera quando venne ospitato a casa da Gigi Martini, il miglior amico di Re Cecconi. «Ghedin – ha ripetuto Martini alla Gazzetta dello Sport un anno fa in una pagina dedicata al caso a firma Francesco Ceniti – quella notte mi ha detto che non ci fu nessuno scherzo, che non ha sentito nessuna frase detta da Luciano. Me lo ha giurato. Quell’arma era senza sicura, sensibile ad ogni vibrazione. In pratica, con il dito sul grilletto, è bastata spostarla per far partire il colpo… Quella versione faceva comodo. Meglio far passare per stupidi due calciatori piuttosto che parlare di tragica fatalità o di altro. E mi disgusta questa cosa, calpestare così la memoria di un uomo che mai avrebbe solo immaginato uno scherzo simile».

In realtà Ghedin ha spesso evitato di parlare di quella sera. I Re Cecconi dicono che l’ha fatto anche con loro. Una volta c’è stato un imbarazzante incontro tra il figlio Stefano e l’ex calciatore della Lazio (che è stato anche vice di Maldini, Zoff e Trapattoni, quando allenavano la nazionale, nonché tecnico della squadra di Malta). Però in una intervista se ne uscì con questa frase: «Se fossi morto io, non avrei saputo perché ero morto…». E poi: «Si è scritto molto, si è parlato tanto e a volte non bene. La verità non è uscita fuori perfettamente… Qualcuno ha stravolto questo episodio, evidenziato cose non vere di Luciano…». E quando la Gazzetta l’ha cercato un anno fa, ha risposto così: «Non c’è stato nessuno scherzo? L’ho già detto al processo, è tutto agli atti. Perché ripeterlo? Da quasi 40 anni c’è la rincorsa a farmi un’intervista, cercando di provocarmi… Non devo giustificarmi, sono a posto con la coscienza. È stata una tragica fatalità, un uomo ha perso la vita. Poteva capitare a me… Ha ragione Martini, è vergognoso dipingerci da idioti in cerca di guai. Perché è passata la versione della finta rapina? Me lo sono chiesto tante volte: tengo le risposte per me…».

re_cecconi chinagliaCi sono altri due motivi che fanno riflettere. Il primo è che Bruno Tabocchini era un uomo terrorizzato. A metà anni Settanta è un quarantenne che vive da molto tempo a Roma. Viene dalle Marche, Porto Recanati. Assomiglia all’attore Alessandro Haber, che infatti lo interpreterà in uno sceneggiato realizzato sulla vicenda dalla Rai che non è mai andato in onda, bloccato dagli avvocati della famiglia dell’orefice che lo hanno giudicato offensivo per il loro cliente. Ha già subito un paio di rapine, prima di quella funesta serata. In una, a febbraio ’76, ha bloccato e ferito con la sua 7,65 il bandito: «Ho paura che qualcuno torni per farmela pagare» ripete spesso. Ha sparato ancora a luglio, dei colpi in aria perché pensava che avessero scippato la moglie. Possiede tre pistole: una 6,35, una Walther 7,65, quella con cui ucciderà Re Cecconi, e una Magnum 38.

Il secondo motivo di riflessione riguarda la conoscenza o meno del calciatore della Lazio da parte di Tabocchini. Molti si sono chiesti come abbia fatto a non riconoscere un personaggio notissimo, dalla fisionomia inconfondibile, un uomo che stava spesso dalle parti del negozio sulla collina Fleming. Cecco per un periodo ha anche abitato sulla Cassia a due passi (sessanta, ha misurato Chiappaventi) da casa dell’orefice. Ma la sentenza ha detto altro ed ha creduto alla versione di Tabocchini, il quale ha riaperto il negozio in via Nitti nel dicembre del ’77 e vi è rimasto fino al 2002. Oggi è un pensionato di 80 anni.

Prima di quella morte assurda, uno degli adolescenti che pitturavano con il giallo il numero 8 della Lazio del Subbuteo è salito su un albero della collinetta di Monte Mario dove, quando non avevano ancora messo il coperchio allo stadio Olimpico, si potevano vedere squarci di partita. Bastava portarsi una radiolina e si capiva meglio che cosa stesse succedendo laggiù in basso. All’improvviso vede Re Cecconi: «Quando è cominciato il secondo tempo, nell’arcobaleno è entrato all’improvviso un raggio azzurro. Era Luciano Re Cecconi che batteva il calcio d’angolo. Un lampo più che un raggio. Ed era biondo come una corona…». L’ha scritto Carlo D’Amicis in Ho visto un Re un bel libro di un po’ di anni fa su Re Cecconi. Uno che giocava alla morte ed è morto per gioco.

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