Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Il freddo a Genova

Non solo per diritto di nascita ma per anima avventurosa segnata dalla cifra di Colombo, Massimo Morasso, poeta intenso, dedica versi alla città ligure che folgorò Campana… Versi luzianamente definitivi

Una nuova poesia, semplice quanto conoscitiva e incantevole, sulla mia città più amata. Genova è la città magica della poesia. Esclusa, per la sua sfuggenza anticlassica e non catalogabile, dal Gran Tour dei poeti e letterati tra sette e ottocento, folgora Dino Campana, muove i versi più strazianti e visionari di Caproni, nelle sue Stanze della funicolare, ispira Frénaud. A Valéry offre una notte d’incubo, che non produrrà poesia genovese, ma un mutamento dell’anima.
Genova è la città-porto, l’antica Repubblica Marinara che non sa di essere antica, sempre ardente negli altiforni, nella febbre elettrica del porto, nei suoi vichi mediterranei, arabi whitmanianamente confliggenti con la città portoindustriale, a cui darà un ulteriore volto Renzo Piano, uno dei grandi genovesi, come Gino Paoli.
Massimo Morasso, uno dei poeti intensi e marcanti della mia generazione, essendo genovese, non solo per anagrafe, pettegolezzo della vita, ma per Dna, per anima avventurosa e avventurata, non ha patria che non sia salpare. Da qui la sua cultura e la sua poesia segnate dalla cifra di Colombo, guardare oltre la banchina, conoscere, e insieme aggrovigliarsi nei cunicoli delle strade strette in salita.
Descrive, apparentemente, in realtà svela, un suo volto, qui, Morasso, e nel groviglio e nella tensione della città che stringe, schiaccia e spinge verso il mare, trova versi assoluti: «nel mezzo del mistero del vivente»: lapidario come Luzi nella fissazione attimica della visione poetica. E ancora, luzianamente, quanto basta, nel vivere e nel fare poesia che significa cercare parole pari alla vita, «le volanti radici del reale».

 

Morasso

Genova non ha potuto nulla contro

l’incedere dell’autunno.

Il freddo è arrivato, le nuvole

circondano i castelli, i balestrucci

sorvolano i gazebo

in un ambaradan d’orchestrali impazziti.

 

E in basso, sbottati giù nella medina multitutto,

i marocchini che s’imbucano nei bar,

intirizziti migratori che rimbalzano fra i vetri

nel mezzo del mistero del vivente –

 

e questo basta, e le volatili radici del reale.

Massimo Morasso
(Da L’opera in rosso, Passigli Poesia)

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