Laura Novelli
Visto all'Ambra Jovinelli di Roma

Elogio dell’inetto

Valerio Mastandrea è bravissimo a interpretare il protagonista de "Il migliore" di Mattia Torre. La storia di un impiegato depresso che scopre la cattiveria. Ma il testo convince solo a metà

Musica alta. Palcoscenico buio. Un fascio di luce al centro della scena vuota illumina un uomo di aspetto giovanile e ben vestito che, impalato davanti al pubblico, sembra un manichino dalla prossemica “gogoliana”: le braccia molto vicine al busto, la camminata poco naturale e insicura, il volto animato spesso da un falso sorriso compiaciuto ci parlano di quella mediocrità ingenua e pavida che innerva la vita di molti, degli anonimi, dei “buoni” per scelta o per statuto. È infatti un uomo qualunque, un infelice qualunque, l’Alfredo Beaumont che Valerio Mastandrea interpreta nell’assolo Migliore di Mattia Torre (anche regista), spettacolo ora in cartellone all’Ambra Jovinelli di Roma e che, ripreso a distanza di oltre dieci anni dalla prima edizione e prodotto dal Nuovo Teatro di Napoli, sarà poi programmato al Franco Parenti di Milano.

Sulle doti attoriali di Mastandrea risulta scontato qualsiasi commento. Bravissimo attore di cinema, capace di una naturalezza mai sopra le righe e di sottigliezze psicologiche assai credibili (basti ricordare, tra i suoi successi recenti, pellicole come Gli equilibristi, Viva la libertà, La felicità è un sistema complesso, Perfetti sconosciuti, Fiore, Fai bei sogni), qui, in questo sottile monologo sospeso tra commedia e tragedia, l’attore romano mostra delle corde espressive per certi versi inedite. Una capacità mimetica che, pur sul filo della verosimiglianza, sa attraversare note di straniamento quasi brechtiano, sa regalare pieghe ironiche esilaranti, e sa tradursi, tanto più, in un eclettismo vocale fuori dal comune, esercitato a caratterizzare con estrema precisione i vari personaggi che il protagonista incontra nel corso della sua storia.

valerio-mastandrea_riccardo-ghilardiÈ pertanto un piacere starlo ad ascoltare. Seguire la routine ordinaria dentro la quale questo ometto idealista e fragile consuma i suoi riti quotidiani, facendo un lavoro che non ama (una grande azienda lo ha assunto per esaudire i desideri più assurdi dei ricchi), innamorandosi di una donna irraggiungibile (Sofia, la figlia del Presidente), dicendo sempre sì a questo e a quello, subendo i soprusi morali/culturali di uno spocchioso vicino di casa, partecipando, suo malgrado, a ridicoli laboratori di pasticceria organizzati da un’associazione di attempati figli dei fiori per i quali c’è del bello in ogni cosa. Insomma, Alfredo è un inetto. Forse non ha quei grumi di angoscia profonda che potremmo trovare in un personaggio di Musil o di Svevo, ma anche lui soffre di ansia depressiva. Un’inquietudine nera che si chiama vuoto nello stomaco, paura di morire, senso del destino, fastidio verso se stesso e verso il proprio retaggio familiare.

Ovvio che la sua esistenza, così banale e grigia, debba giocoforza arrivare ad uno snodo, ad un impatto feroce con la realtà, ad un ribaltamento che sia frutto di un conflitto con l’esterno o con se stesso. Lo chiedono le regole stesse di ogni buona drammaturgia: quella necessità di trasformazione che guida azioni e personaggi verso la loro destinazione “significativa”. In Migliore, la “catasfrofè”, il cambiamento, si innesca non appena il protagonista provoca non volendo la morte di un’anziana signora che abita nel suo palazzo. Uno slancio di bontà tramutatosi tragicamente in lutto. Un’accusa di omicidio tramutatasi inaspettatamente in assoluzione. Insomma: un’epifania, una chiamata alle armi. Una nuova vita da uomo cinico, vendicativo, misantropo, sospettoso, crudele avversario del prossimo, persino dei cani. Alfredo/Mastandrea si trasforma e si trasforma pure la recitazione: le vibrazioni ironiche si fanno gotiche, il paradosso provoca risate amare. Più che divertirci, ora sentiamo di avere scolpite sul volto delle smorfie grottesche.

Malgrado però la grande prova attorale, il ritmo brioso della regia (scandito tra la l’altro dalle belle luci di Luca Barbati) e i puntuali intarsi musicali a firma di Luciano Taviani, proprio questa seconda parte del testo risulta secondo me meno incisiva della prima. L’idea in sé è teatralissima ma la scrittura non si fa abbastanza graffiante, drammatica in senso letterale. Credo che la vicenda avrebbe potuto/dovuto prendere una traiettoria più surreale, più estrema, più sghemba per suonare – paradossalmente – più vera. È come se, in altri termini, il cambiamento radicale del personaggio si avvertisse solo a metà. La sua cattiveria – unica “dote”, sembra volerci dire l’autore per poter sopravvivere al cinismo dei nostri tempi – non è poi così condannabile, così moralmente raccapricciante. Se leggessimo la parabola di Alfredo al contrario e la confrontassimo con quella, ad esempio, di Tartuffe, questa crepa probabilmente salterebbe agli occhi. L’immoralità della figura molièriana è assoluta, svincolata da qualsiasi remora, alternativa. È tragica. E l’integrità morale che la smaschera è altrettanto integra, fatale. Nella pièce di Torre – pur ottimo autore che spazia con disinvoltura dal teatro al cinema alla tv e del quale sarà proposto a febbraio, sempre all’Ambra Jovinelli, il lavoro 4 5 6 – sembra che la presa di coscienza di Alfredo abbia più a che fare con una rivincita personale che con un assioma universale. E il teatro, si sa, ha un bisogno estremo di assoluto. Tanto più oggi. E domani.

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