Danilo Maestosi
Vista al Macro di Roma

Kapoor prima e dopo

Anish Kapoor cambia ancora pelle: non più filosofia e paradossi zen ma le ferite della carne. Il maestro anglo-indiano torna a mettersi in gioco in cerca di un senso nell'orrore

Anish Kapoor, 62 anni, inglese d’adozione, una miscela orientale di sangue ebraico e sangue indiano che madre e padre gli hanno infuso nelle vene, uno dei più grandi maestri contemporanei, da oltre trent’anni sulla scena internazionale, ha sempre assegnato alle sue creazioni in continuo dialogo con il vuoto e i suoi miraggi, un valore quasi mistico di opere aperte. All’autore il compito di dare forma modellando varie materie alle forze in conflitto che governano il mondo delle idee e delle cose; a chi le osserva la libertà di coglierne il senso, prolungarne la vita, farle parlare, guidarle nelle infinite direzioni della propria immaginazione e della propria curiosità. Un invito a lasciarci coinvolgere come attori della rappresentazione che esplode con più forza e in direzioni inattese nella grande mostra in scena a Roma fino al 17 aprile nelle sale del Macro di via Nizza, dove Kapoor presenta una trentina di lavori più recenti e in gran parte inediti. È una svolta radicale della sua proposta espressiva che trascina lui e noi in un altrove spiazzante di viscere e sangue. Ci aspettavamo di tornare a sfogliare, come Kapoor ci aveva da tempo abituati, un libro di filosofia e paradossi zen o un manuale di effetti speciali d’alta tecnologia e invece precipitiamo in un canovaccio non sgrezzato di De Sade.

Pensavamo di sederci in poltrona in un teatro patinato e accogliente e invece siamo obbligati ad aggirarci tra le quinte di un Mattatoio. Perché? Che cosa vuol dirci, che cosa vuol dirsi Kapoor? Forse per una volta – raro che un artista di successo si spinga a tanto – di smettere di trattarlo e vezzeggiarlo come un dio che ci rivela e ci dona la fede nel mistero dell’arte. Lui per primo deve aver cominciato a dubitare di questa sua munificenza da demiurgo che col tempo si è irrigidita in una maschera: lo stupore in una voglia di stupire, il non detto in un’omissione, il gioco numinoso proposto al suo pubblico in una resistenza a mettersi in gioco, la verità in un camuffamento, l’eccezione in una regola. Prendendo corpo, sulla spinta di un mercato in costante ascesa e di una committenza da griffe di prestigio, in una serie di monumenti sempre più grandi e spettacolari istallati nelle piazze di grandi città d’Occidente e d’Oriente, in macchine sempre più levigate e sofisticate concepite per circolar e mettersi in posa come primedonne nei musei. Arte di grande impatto e innegabile fascino ma a fior di pelle.

kapoor-macro1Un’inerzia da artista incalzato da un’ansia di verità e necessità che Anish Kapoor ha deciso di spezzare, togliendosi di dosso la pelle. Può esser stata l’irruzione delle violenza in quello spicchio di Oriente e Medio Oriente dove l’artista riconosce le sue radici, la forza d’urto e di sofferenza delle migrazioni, l’attacco del terrorismo in quei santuari dell’Occidente dove ha trovato casa e successo, l’ottusa risposta alla crisi dei muri e delle trincee populiste. Quanto basta a intaccare anche il distacco superbo di un dio creatore, obbligarlo a guardarsi allo specchio, riconoscersi anche lui complice e vittima di questi sconvolgimenti. Come suggerisce la cronologia di questa nuova fase creativa. Tra le prime opere ad avviare la svolta una scultura messa in mostra quattro anni fa alla Tate di Londra e ispirata al supplizio di Marsia, figura emblematica della mitologia classica, un sileno scuoiato vivo per aver osato sfidare con il suo flauto Apollo, nume della musica e dell’arte che lo vinse con un inganno. E poco dopo un altro lavoro, un calco di corpo ridotto a una poltiglia di carne denudata, esposto ad Amsterdam di fronte alla Lezione di anatomia dipinta da Rembrandt: l’arte spinta verso il confine estremo che divide e unisce la vita e la morte.

Di questo percorso di ricerca, Roma rappresenta il primo approdo ufficiale su ampia scala, trasformando la mostra del Macro in un imperdibile evento internazionale. Scelta fortemente voluta da Kapoor, questa della nostra città, dove lo spettacolo del dolore inferto alla carne viva si riflette in uno straordinario campionario di capolavori, come quelli che Costantino d’Orazio, curatore del Macro, elenca in catalogo con efficace dovizia: dal Marsia dei musei capitolini a quell’antologia di sublimate torture di santi affrescata sulle pareti di Santo Stefano Rotondo, passando per il rivolo di sangue che sgorga dall’orecchio del pugile ferito di Lisippo al macabro getto che erompe dall’Oloferne sgozzato di Caravaggio.

Citazioni e rimandi che la visione della mostra continua a rimpolpare. A cominciare dalla prima opera, Tenda del 2013, che ne apre il tragitto. È una tela interamente dipinta di nero che uno squarcio al centro, da cui affiora un bagliore rossastro, rivela come un sipario. Un taglio come quelli partoriti da Lucio Fontana: come soglie verso una nuova dimensione. Ne scosti i lembi e scopri sotto un tappeto di carne sezionata, modellata con sbalzi si silicone e dipinta con strati di pigmenti a simulare vene, arterie, colate di grasso. È il nostro corpo che rivendica l’orrore della vita pulsante sotto l’epidermide, o quello dell’artista che tocca così tra stupore e senso di rigetto l’essenza della propria fragilità umana.

L’arte come un’operazione chirurgica. Una dissezione, come ci dice il titolo del secondo quadro, i veli che penzolano ai lati e le colate di un rosso grumoso non lasciano dubbi: la nuova dimensione cercata da Fontana si trasforma in Kapoor nell’evidenza di una ferita che sta sanguinando. Ci piaccia o meno, è il prezzo da pagare per scoprire quel che siamo davvero. Vita che appena riemerge ci mostra già il volto della morte, come in un terzo quadro poco più in là, le stesse bende penzolanti, lo stesso strazio di carne martoriata, ma il rosso che vira verso il nero, la necrosi che avanza. Una decomposizione che produce Fetore, quasi superfluo il titolo che lo battezza. Affiorano, certo, gli echi di altri rimandi. Ogni artista è a suo modo un ladro d’arte. Inevitabile pensare ai quarti di bue sbudellati che penzolavano nei quadri di Chaim Soutine. Ai riti macabri che il tedesco Hermann Nitsch continua ad imbandire spalmando organi di bestie eppena macellate. Ma la rielaborazione del tema imbocca strade del tutto originali.

Cerca e trova lo choc questo nuovo Kapoor, squarcia la pelle come un guru indù o il pessimismo di Schopenhauer ci hanno invitato a fare con il manto di Maya, il sudario delle nostre illusioni. Da quel dentro veniamo tutti. Al centro di un’altra grande tela, intitolata Fetale, troneggia come un altare lo spacco di un utero dilatato, circondato di macchie rossastre. E cos’è, cosa ci ricorda quella fenditura scura là vicino se non una vagina, un rifugio d’eterno ritorno verso cui il desiderio sessuale ci spinge? Un ponte «gettato tra lui e lei», sottolinea il titolo.

Spietato come un angelo caduto, Kapoor ci ricorda che ogni sentimento, anche l’amore, a grattar la superficie è un rito cannibale. Che il peccato originale della nostra specie è comunque un trarre vita dal massacro di altre specie. Che la carne che indossiamo è carne che divoriamo. Ecco un impressionante e grande assemblaggio in cima al quale penzola una testa di vacca appena macellata. Uno strato di garza avvolge quel trofeo, ma è intrisa di sangue rappreso, la forza della visione la perfora e rende lo spettacolo ancora più inquietante. Che ipocrisia addossare a mostri, a capri espiatori dei nostri sensi di colpa la crudeltà, la violenza che generiamo e che ci circonda, il terrore di vivere e di morire che ci spinge ad altri orrori. Contagiata da questa consapevolezza anche la scultura volatile di Kapoor rinuncia alla perfezione dell’involucro: le superfici si increspano, il disordine sommerge l’ordine, il colore si sporca, i volumi di materia si trasformano in colate di lava appena eruttata, aggettata in fenditure e sporgenze taglienti.

Difficile dire se è questa la strada che l’artista angloindiano continuerà a seguire, o solo una digressione. Se ci sarà un prima e un dopo. Perché qui in questa mostra il prima e il dopo convivono. E Kapoor, curando con le sue mani la selezione e l’allestimento, ha voluto espressamente affiancare ai lavori di questa serie lacrime e sangue una campionatura delle sue ricerche precedenti, che offre quasi a misura della sua nuova produzione.

Ecco così proprio al centro della sala una delle sue gigantesche macchine celibi, che aveva già esposto a Versailles. Un castello quadrato di legno laccato di rosso che incornicia un intreccio di involucri e di oblò puntati verso l’esterno, trascinando lo sguardo di chi ci si affaccia in una vertigine di totale spaesamento. Ecco in un angolo un’istallazione di specchi concavi e convessi e giochi di luce inscatolata in una struttura di ottone lucente. Al centro un tripudio luminescente che suggerisce l’esterno e l’interno di una sorta di antro di una dea primigenia del piacere e della fecondità. Ma è in realtà un mosaico inafferrabile di riflessi, un concentrato di inganni ottici e di miraggi. Ecco in una nicchia di fronte una grande parabola dipinta di un rosso che sfuma nel nero man mano che ti avvicini e cattura grazie alle luci e alla sua specchiante convessità tutte le immagini che la circondano, proiettandole in una penombra popolata da fantasmi , corposi e sfuggenti come ologrammi. E alla fine è così forte l’impatto di questi artifici di controcanto da farci macerare nel dubbio che il mistero dell’uomo e dell’arte sia sempre aldilà delle prigioni di senso e di interpretazioni che costruiamo. Che anche Kapoor nel togliersi una maschera non faccia che costruirsene un’altra. E convivere con quest’ambivalenza sia il vero messaggio che da abile teatrante l’autore ha voluto lanciarci.

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