Paolo Bonari
A proposito di "Una relazione borghese”

L’uomo di Torné

Alla scoperta di Gonzalo Torné, scrittore catalano che prende in prestito le ambientazioni dal cinema ma poi racconta la sconfitta del maschio con le armi della parola. Tra Bellow e Piperno

Si sa come funziona, no? Prima che un libro esca, già si affaccendano gli amici dell’autore, gli aspiranti amici, i corteggiatori delle funzionarie editoriali e quelle che vorrebbero soffiare loro il posto di lavoro, i fan più zelanti che sono pronti alla pugna, pur di difendere il loro favorito e le sorti della sua opera, e gli scrittori più amatoriali, noti a livello rionale o tutt’al più municipale, che si mettono in scia del nome più grosso e partecipano attivamente alla sua promozione, sperando di ottenerne un po’ di gloria riflessa, da buoni “adorautori”: uffici stampa alternativi e più efficaci degli stipendiati, tutta una nuova classe culturale che, tramite la propaganda forsennata dei propri (inimitabili) gusti, aspira al riconoscimento sociale della propria identità. Stephen King dovrebbe mettersi al passo coi tempi, aggiornare Misery, inscenare una girandola di vendette incrociate che insanguini i destini di questi groupies letterari, che finirebbero per ammazzarsi a vicenda, pur di risultare gli unici e gli ultimi in grado di apprezzare il loro beniamino.

Non divaghiamo e, comunque, non c’è niente di male, per carità, nella promozione social dei libri, che ha l’odore buono di ciò che “viene dal basso”: qual è la sorte, però, di coloro che non sono altrettanto social e che decidono, ciononostante, di pubblicare dei libri? Spesso, guadagnano un’imperitura invisibilità ed è rarissimo che si prenda in mano l’opera di un completo sconosciuto, al giorno d’oggi. Mondadori, per esempio, ha dato alle stampe il romanzo dello scrittore e traduttore spagnolo Gonzalo Torné (Una relazione borghese, 309 pagine, 22 Euro) e non uno che gli abbia riservato una sola riga: il tipo mi sembra essere piuttosto schivo e non deve avere molte amicizie italiane, evidentemente. Infatti, detto del silenzio che ne ha accompagnato l’uscita, questo è il suo terzo romanzo, risale al 2013, è il primo che viene tradotto e pubblicato nella nostra lingua e non è un’opera trascurabile, o non lo è più di tante altre, di fronte alle quali ogni giornalista culturale nostrano viene chiamato a o si sente in dovere di esercitarsi, non si sa bene perché: i difetti del romanzo sono più estrinseci che intrinseci, derivano dal suo adeguamento a modelli che andrebbero aggiornati, più che dalla qualità linguistica, che è notevolissima, nella splendida versione di Gloria Cecchini (alla quale chiederei: con “schiscetta” ha reso quale corrispettivo spagnolo?). Ciò che segue, perciò, non dovrà in ogni caso intralciare la consapevolezza che di romanzi del genere ne escano pochi, in un anno, e sarà più una resa dei conti personale con una certa linea del romanzo contemporaneo di tendenza istrionica.

torne-una-relazione-borgheseTogliamoci il primo sassolino: perché, nel tradurlo, resiste la tentazione (tutta italiana, forse) di modificare il titolo? Così, Divorcio en el aire diventa l’anodino Una relazione borghese. Perché, stimata Mondadori? Anche per chi possieda una vaghissima conoscenza della lingua spagnola, il titolo originale sembra esprimere tutt’altra rilevanza semantica, e maggiore aderenza alla vicenda romanzesca, come andremo a vedere. Certo, il romanzo conserva una sua classe sociale di riferimento, che è quella della gioventù del protagonista, Joan-Marc: il quale, però, tende a negare proprio quegli ideali borghesi di serenità e rispettabilità, ferma restando la relativa tranquillità economica. Due matrimoni alle spalle, con due donne dal temperamento opposto, due fallimenti: Joan-Marc ricorda gli episodi della sua relazione con la prima, Helen, e la narrazione, piano piano, si trasforma in una lettera indirizzata alla seconda, per metterla a conoscenza di quella vita precedente. Un romanzo-flusso che muta nel proprio farsi, ma che procede senza interruzioni, con rarissimi spazi bianchi e facendo a meno della divisione in capitoli: richiede una lettura intensiva e molto attenta.

Più si va avanti e più sembra di avere a che fare con un Herzog catalano in una Barcellona ostile, in mano a generazioni successive e non partecipi del suo dramma, un quarantenne sull’orlo pericoloso dell’esaurimento di nervi e alle prese con faticosi tentativi di riassestamento emotivo: insomma, alla ricerca di un altro amore, nonostante i disastri passati, perché, a differenza dell’amico Pedro-María, come lui reduce da un divorzio, Joan-Marc non si rassegna a “gettare la spugna” – e perché dovrebbero, dei “ragazzotti di quaranta e passa anni, maturi, sani e fertili” come loro? Da innamorato dell’altro sesso, Joan-Marc non sa e non vuole rinunciare: “le bambine, le ragazze, le donne, le diverse incarnazioni evolutive dell’eterno femminino” non smettono di attrarre i suoi sguardi, di ispirare le sue pulsioni, e di mettere in rilievo le sue debolezze, visti i ben noti risultati. Un misogino che ama le donne e che continuerà a farlo, malgrado l’acquisita coscienza che saranno loro a portarlo nella tomba, a continuare a spingerlo nell’abisso.

Costretto ad assistere allo spettacolo completo del male di vivere, alle tappe che aveva percorso il suo matrimonio con Helen, a partire dalle gioie iniziali, Joan-Marc ne riassume la sanguinosa capitolazione: l’alcolismo che le impediva ogni iniziativa, il malessere, l’ansia che si era impossessata di lei, la depressione, la noia che, giunti a tal punto, dominava anche le giornate del marito, il paradossale rimpianto della dipendenza etilica della moglie, perché almeno il bere, una volta, riusciva ad appassionarla. Fino alla violenza, alle vendette, oltre la soglia delle reciproche vittimizzazioni, fino alle pugnalate, al tentativo di distensione del soggiorno alle terme, dal quale prende le mosse il romanzo. “Quando ci metteremo a sbraitare seriamente per i nostri diritti? Non verrà nessuno a salvare il maschio occidentale?”: quando recupera un po’ di convinzione, suona la carica, Joan-Marc, e invita i propri compagni di lotta, gli uomini stanchi e delusi, a far valere le proprie ragioni, a difendersi dalle angherie di un sesso debole che, tramite isterismi, sbalzi d’umore e calcoli meschini, li sta mandando alla rovina. Nient’altro che l’ennesima battaglia dell’eterna guerra dei generi, la sua, fomentata dalla mutua incomprensibilità dei loro membri.

Proustismo rinnovato con la tradizione dell’affabulazione ebraica, bellowiana, e tentazione del memoir: a chi altro pensare se non al nostro Alessandro Piperno? Le somiglianze con l’esordio dello scrittore romano sono notevoli, per ritmo e lingua: come in Con le peggiori intenzioni, il sicuro possesso del mezzo verbale dà luogo a risultati di prosa molto concettuale, tanto che “la parola arrivò da sola da chissà quale deposito della memoria per andare a infilarsi nello spazio che le aveva riservato la sintassi” e che i dialoghi siano del tutto implausibili, posticci, affettati; ciò che più infastidisce, però, è l’ampio ricorso alla terminologia neurologica, un tentativo non nuovo di “scientificizzare” il proprio frasario. Al pari di altri colleghi, anche Torné ci fornisce la prova che il romanzo contemporaneo non si accontenta e di come sia un’accumulazione, sia troppo: si fa un gran parlare di sottrazioni, di essenzialità, di minimalismi non meglio definiti, tralasciando di specificare che un conto è Carver, un altro Cassola e, però, di fronte alla performance, sembra che pochi riescano ad astenersi dalla volontà di aggiungere tutto, tutto il lecito, perché non è quello romanzesco il genere in cui è lecito tutto? Non incardinare la narrazione ad alcuna struttura simbolica la libera da ogni esigenza, il che è eccessivo: un episodio sarà significativo e necessario e superfluo quanto un altro, perché il romanzo-flusso idoleggia “la vita” e le fa il verso, riproduce le sue mancate attribuzioni di valore, non consente criteri d’ordine.

gonzalo-torneDà da pensare il fatto che l’editore evochi Woody Allen, Youth di Paolo Sorrentino e Carnage di Roman Polanski, nel presentare questo romanzo, nella ricerca dei suoi simili, ma i nomi fatti sembrano inappropriati, perché Torné non esorcizza il pathos alla maniera alleniana, o non lo fa altrettanto, e la legittimità degli altri accostamenti deriva casomai dalle comuni ambientazioni, non da ragioni stilistiche; dà da pensare, cioè, che questi riferimenti siano esclusivamente cinematografici, che la settima arte venga invitata alla discussione di un’opera letteraria: le Muse non condividerebbero il sovvertimento della teoria, il sopravanzarsi delle arti nuove su quelle stabilite, ma tutto è narrazione, la narrazione è tutto, quella visiva è imperativa, e non possiamo attribuire colpe a Gonzalo Torné, se lo specifico verbale non sembra ormai necessario, sufficientemente necessario a fondare la propria irriducibilità agli altri linguaggi.

Joan-Marc adora spiluccare frutta secca, affronta i primi guai dell’età, assiste al proprio invecchiare, ben sapendo che “la carne arrugginisce e si consuma, ma l’amore è incollato alla coscienza, è la vocazione della nostra specie, ci scuoterà fino alla fine” e scuote fino alla fine il romanzo, che subisce l’ennesima mutazione e si rivolge a Helen, finalmente, da sempre e per sempre amata, nonostante il male che lei e chi narra sono stati capaci di scambiarsi: nessun segno di pace, nella lotta che, per entrambi, coinciderà con la giovinezza e le possibilità sfumate. “Se non è andata come doveva è anche perché gli esemplari che ho incontrato non erano come mi era stato raccontato: niente creature sorridenti, serene, complici, silenziose e celestiali, niente canticchiare e preparare torte, le donne che sono entrate in collisione con il mio presente sensibile erano esseri complessi e ambiziosi, in balia di montagne russe dell’animo”: e noi, noi maschi, quanto abbiamo tradito le speranze femminili?

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