Giuliano Compagno
Fra teatro e filosofia

Konsanguineo Karamàzov

Con "K", Lauro Versari ha messo in scena una personale visione del capolavoro di Dostoevskij, riuscendo a cogliere la complessità del rapporto tra bene e male del capolavoro russo

Il compleanno di Fedor Pàvlovic Karamàzov… K per chi legge, come da titolo dell’intraprendente messinscena di “Teatro Segreto MovINvento” (a Roma, Teatro della Visitazione dal 17 al 20 e dal 24 al 27 novembre), uno spettacolo di probabile stupefazione, con i suoi chiaroscuri e le sue voci, con lo spirito russo e con il tempo della festa a scandirlo. Diretto, molto bene, da Lauro Versari, che non ha provato alcun timore nel modellarne qualcos’altro rispetto a una faticosissima trasposizione. E vi è riuscito, approntando una sala da banchetti per una sessantina di amici cari, i cui ospiti: Dmitrij (Federico Vigorito), Ivan (Camillo Ciorcaro), Alëša (Valerio Camelin) e Smerdjakov (Ivan Giambirtone) rendevano i conti a K in occasione del suo genetliaco, anticipato da un prete-letterato (Francesco Pezzella) e danzato da una trasognata Grušenka (Ilaria Smacchi).

Faccio parte dei quindici milioni di italiani che nel 1969 vide le sette puntate dirette da Sandro Bolchi; ogni tanto mio padre mi diceva: «Guarda! Quello è Salvo Randone!» Indicava il più immenso Iago della scena novecentesca, un Attore insuperabile, morto in povertà nel 1991, poco prima che 15 milioni cdi telespettatori li facessero Commesse o Carramba che sorpresa!

k-lauro-versariEbbene penso che il Fedor di Luca Biagini, che ho ammirato domenica scorsa, sia riuscito nell’impresa di avvicinarsi all’Attore siracusano. Perché, come sapeva Randone, egli ha usato l’arte di far cadere la parola, come ad accompagnarla in un ambiente dove non risuonasse alcunché di ieratico. Del resto, K manca di solennità; la sua attitudine tenderebbe piuttosto a dissimulare, non soltanto i propri vizi ma persino a minimizzare le manchevolezze di ogni esistenza terrena, a cominciare da quella dei suoi “cari”. Se attaccato, reagisce, questo sì, ma lo fa trascinando tutto e tutti al suo medesimo livello. Per K, l’universo è il miglior luogo ove celare la propria perdizione, ed è questo il segno distintivo della famiglia: quella “forza infame dei Karamàzov” che perfettamente rimanda a una categoria assai nota agli amanti di un genere pop del cinema contemporaneo occidentale. L’accenno è al “lato oscuro della Forza”, attraverso cui l’uomo acquisisce una forma di energia ritenuta (a torto, secondo alcuni) oltre-umana. Da ciò la ribellione nei confronti della Natura; da ciò il Caos, nonché l’idea che Bene e Male parimenti coabitino entro la sfera universale. Da un versante, dunque, l’aprirsi di un orizzonte compiutamente soggettivo; dall’altro, l’affermarsi di una volontà di potenza in grado di trascendere i sensi di Colpa e di Peccato.

Si dirà: non è una lezione di filosofia, è teatro. Non esattamente. Ovvero, non è nessuno dei due, poiché è Fëdor Michajlovič Dostoevskij, scrittore e filosofo russo che ha illuminato e anticipato quant’altri mai i sentieri del XX secolo. Igor Sibaldi ha mirabilmente descritto l’infinita esperienza di uno spettatore (e di un lettore) dostoevskiano: «Durante la maggior parte degli episodi dei Karamàzov il tempo è fermo, non scorre, si estende soltanto in profondità, proprio come la luce intensa a teatro sui corpi degli attori che essa plasma, cilindro di essere nel buio del non-essere. E anche quando questa luce diviene la struggente luminosità radente dei “raggi obliqui del sole al tramonto” non è l’ora che conta: soltanto l’effetto-luce, lo squarcio improvviso d’un paesaggio dell’anima, sempre immobile anch’esso da decenni. Nulla scorre, in quel tempo, davvero. La durata dei Karamàzov procede per blocchi d’eternità». Come illuminare una scena.

Su quel palco immoto, l’opera K concilia il disordine con l’immutabilità del destino umano, il che viene reso ottimamente da una regia accorta e coraggiosa. E quando si discetta di Dio e ci si inabissa in suo nome, i sentimenti della speranza e dell’assoluzione vengono condivisi tra i quattro fratelli, ciascuno di essi incarnando il principio e la fine dell’Essere: lo spreco e la dissolutezza di Dmitrij, il falso relativismo di Ivan, la morale esausta di Alëša, il malcelato rancore di Smerdjakov. La Famiglia. Quella famiglia. Le nostre famiglie, sì, certo, le famiglia di tutti noi, al cui sommo punto di equilibrio sta il non detto, e prima ancora l’indicibile verità che sostiene l’esercizio e la funzione di ogni bilancia famigliare, i suoi contrappesi, le sue meste conciliazioni, le simmetrie inventate, il buonsenso, la pazienza, la moderazione… Tutto questo, presso i Karamazov – e in pari misura presso me che sto scrivendo e voi che mi leggerete – potrebbe essere polverizzato dal minimo manifestarsi della Verità. Basterebbe che uno dei quattro fratelli si alzasse a dire la sua, di verità, che tutto crollerebbe come un castello di nuvole.

Ed è per questa ragione che, alla fine, Fedor Pàvlovic Karamàzov si appellerà al senso della festa, a quel che i russi celebrano in ogni benedetta o maledetta riunione. Brindare, bere, brindare ancora, bere di nuovo. Alzare i calici in modo da opacizzare la trasparenza del mondo e il riflesso di noi stessi. Fare di ogni occasione un’esperienza irripetibile, qual è il compleanno del padre meno augurabile che si possa immaginare, di un filibustiere che d’improvviso si metta a cantare delle strofe a noi note, popolari, che ci disorientano per quanto ci suonano banali e fuori luogo. E invece è proprio qui che si comprende il senso di K, allorché un sipario si apre e, dietro di esso si scatenano come russi ubriachi quattro musicisti senza tempo, folli, totalmente immersi nella loro utopia di apporre la parola fine a un’opera irrappresentabile. Al basso uno che chiamano Frombo, alla chitarra un altro detto Fefo, alla batteria un terzo, alias Tony Roma… Infine, a dar voce a tanta deriva letteraria, un omone agitatissimo conosciuto come Lecci, che funge da guida senza bussola a un gruppo, i “Retropunk”, che probabilmente il proprio padre comune l’ha già ucciso, prima che K cadesse in terra, colpito a morte da un figlio e da tutti i figli del mondo. «Era un tipo strano, K, come se ne incontrano alquanto spesso: non solo il tipo d’uomo abietto e dissoluto, ma anche dissennato; di quei dissennati, però, che sanno sbrigare brillantemente i loro affarucci, ma a quanto sembra soltanto questi».

Siamo strani, siamo abietti, dissennati… Siamo K.

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