Angela Di Maso
Al San Ferdinando di Napoli

Vaudeville Liolà

Arturo Cirillo con Massimiliano Gallo mette in scena “Liolà” di Pirandello: roba, fertilità e sterilità segnano uno spettacolo verista perfettamente riuscito

È affidata ad Arturo Cirillo l’apertura ufficiale, al San Ferdinando, della stagione teatrale dello Stabile di Napoli, regista ed interprete di Liolà di Luigi Pirandello. Protagonista Massimiliano Gallo. In scena, con Cirillo e Gallo, un ricco cast: Milvia Marigliano, Giovanna Di Rauso, Giorgia Coco, Sabrina Scuccimarra, Antonella Romano, e poi Viviana Cangiano, Valentina Curatoli, Giuseppina Cervizzi, e ancora gli allievi della Scuola del Teatro Stabile di Napoli, Emanuele D’Errico, Antonia Cerullo e Francesco Roccasecca.

Quando Pirandello scrisse Liolà – ispirata ad un episodio del capitolo IV del romanzo Il fu Mattia Pascal – si meravigliò di se stesso. Aveva scritto una farsa troppo allegra e spensierata e proprio in un periodo storico-personale di grande sofferenza. Siamo nel 1916 in pieno conflitto mondiale, con figlio prigioniero di guerra e moglie con la mente già altrove. Eppure il drammaturgo siculo sentì la voglia irrefrenabile di “sdrammatizzare” tutto quel dolore in maniera scanzonata. La struttura della commedia è intrisa di musica e musicalità. Quest’ultima perché il protagonista declama inni alla vita; musica perché la metrica ben si presta all’introduzione della stessa che va sostituendosi alla prosastica recitata, adoperando la forma tedesca del singspiel, e transcodificando la farsa in commedia musicale.

La lingua è in vernacolo agrigentino, e cioè «nella parlata di Girgenti che, tra le non poche altre del dialetto siciliano, è incontestabilmente la più pura, la più dolce, la più ricca di suoni, per certe sue particolarità fonetiche, che forse più di ogni altra l’avvicinano alla lingua italiana» (così lo stesso Pirandello nella prefazione alla commedia).

liola-cirillo3La prima del 1916 al teatro Argentina di Roma inscenata dalla compagnia di Angelo Musco fu incomprensibile per il pubblico, tanto che anni dopo, e precisamente nel 1928, Liolà venne tradotta – nel 1935 venne portata in scena una riduzione di Liolà in napoletano, adattata da Peppino de Filippo al Teatro Odeon di Milano con Peppino nel ruolo di Liolà, Eduardo in quello di Don Emilio (trasposizione dello Zio Simone) mentre Titina nel corrispettivo di Tuzza. La scena venne spostata dalla campagna agrigentina a quella della costiera amalfitana – e rappresentata in lingua italiana, ottenendo il successo che meritava.

L’azione si apre nella campagna agrigentina in settembre, con le contadine intente a schiacciare le mandorle nel podere della zia, Croce Azzara, sorvegliate del cugino, lo zio Simone Palummu. Neli Schillaci, detto Liolà – nome e soprannome erano già stati attribuiti ad un altro personaggio: Neli Tortorici, nella novella La mosca – è un uomo buono che vive seguendo la ciclicità della natura espressa in istinti che nulla hanno a che fare con la sporcizia degli intenti, ma solo con l’amore nel senso più puro del termine. Un modo di fare e di vivere che però cozza con una Sicilia gretta, bigotta, ma soprattutto legata a convenzioni e moralità pronte ad essere immediatamente infangate da interessi personali. Liolà ha tre “cardelli”, i figli Pallino, Calicchio e Tinino, avuti da tre donne diverse che ha impollinato, proprio come fanno le api. E di volta in volta ha ingravidato altre donne: Tuzza, figlia di zia Croce e Mita, giovane donna data in moglie al ricco proprietario terriero Zio Simone, il cui solo desiderio è avere un erede al quale tramandare la sua roba.

Roba, fertilità e sterilità ne esaltano l’ispirazione verista riversata in perfetto stile Vaudeville, Arturo Cirillo ne coglie mirabilmente senso, bellezza e poesia. In primis, il suggestivo lavoro scenografico ad opera di Dario Gessati in cui un plastificato prato fiorito di rose liolà diventa poi arazzo e allo stesso tempo finestra prima chiusa al mondo e poi aperta a mezz’asta – presagio di un inaspettato e funesto finale – segna il passaggio da una situazione esterna di raccolta ad una interna di oscure beghe familiari. Oscuro illuminato da un orientaleggiante sole – la solarità di un universo rurale contrapposta alla claustrofobia di derivazione borghese che caratterizzerà le opere successive di Pirandello – che fa luce e ombre sui sentimenti dei protagonisti.

Le stesse liolà sono stampate sui costumi di scena disegnati da Gianluca Falaschi, il quale distingue nettamente il candore delle braccianti di Girgenti, innamorate dell’amore, dal rosso di zia Croce e Nuzza, rappresentanti degne del sanguigno inganno.

La drammaturgia musicale di Paolo Coletta presenta, accompagna, spiega, esalta, rallegra e rattrista la storia di Liolà con cavatine, cabalette duetti, terzetti e scene d’insieme, come nella migliore tradizione operistica, costruite su melodie immediatamente fischiabili, e quindi piacevoli e affabulanti, così come le parti strumentali hanno un respiro americanizzato e non, come poteva banalmente essere, di chiusura all’etnia-musicale sicula con strumento e suoni degli strumenti tipici.

liola-arturo-cirilloAnche la parte vocale, sostenuta da leggeri e leggiadri vocalizzi in semplice polifonia, commenta la scena: il coro diviene greco e cioè risposta sociale. Alla musica si unisce la pantomima, altro segno del teatro d’opera francese alla Lully, fino appunto al richiamo del vaudeville.

Liolà esce dal ghetto e s’apre al mondo. La sua storia è universale e non particolare.

La regia di Arturo Cirillo, qui anche nei panni di Zio Simone Palummu – che interpreta bene il tema tipicamente pirandelliano della impossibilità per gli uomini di conoscere la realtà in quanto proiezione soggettiva della nostra personalità, o meglio del ruolo sociale che abbiamo – è estremamente lineare e per questo vincente. Laddove la costruzione scenica modernizza un testo di teatro classico, la filologia naturalistica, e cioè verista, recitativa non confonde lo spettatore, ma anzi lo compenetra totalmente in una storiaccia in cui l’ingenuità consequenziale alla bontà, è considerata disabilità laddove la realtà è contraddistinta da disumana bruttura.

Massimiliano Gallo è perfetto nei panni di Liolà. Il suo volto, tra il fanciullesco e il pestifero, il tono della sua voce, sia in declamato che recitato, riesce a conferire al personaggio tutta l’innocenza, la purezza e la vitalità conferitagli dall’autore e dal regista. Così come la parte più drammatica, e cioè lo svelamento dei vari inganni e il suo volere riparare a quelli che gli altri definiscono i suoi come errori, mentre per lui è solo amore, si arricchisce di pathos, nell’immobilità, nei giochi ombra (di Mario Loprevite), creando quel sottile filo magico tra l’attore ed il pubblico, il quale non vede un attore che recita, bensì lo stesso Liolà.

Dotata di grande fascino, una dirompente Milva Marigliano convince, diverte e commuove il pubblico. Come lei, lodevole è la prova attoriale e canora dell’intero cast.

Ne l’Avanti! datato 4 aprile 1917, Antonio Gramsci recensì la prima di Liolà raccontando il malvolere del pubblico perché voleva un finale in cui ci fosse una scena da matrimonio o di sangue cruento.

Applausi a scena aperta e standing ovation per la prima napoletana.

In scena fino al 30 ottobre.

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