Nicola Fano
Viaggio in un teatro (apparentemente) lontano

Scene dalla Lucania

Il consorzio Teatri Uniti di Basilicata ha organizzato negli spazi della Regione una rassegna di nuove produzioni lucane: un'occasione importante per capire pregi e limiti della creatività del Mezzogiorno

La forza del teatro si vede da lontano. Come la sua magia. Mi è capitato di sentirle, per esempio, assistendo ad uno spettacolo dedicato a Shakespeare (uno Shakespeare preso a pretesto per una sorta di rappresentazione popolare di strada…) in un Auditorium singolare: quello di Avigliano, in Lucania. Eravamo in un luogo teatralmente inospitale (una sala enorme, fredda, con un palco minuscolo, senza graticcia e lontanissimo dal pubblico) eppure tra gli interpreti (Carlotta Vitale e Mimmo Conte anche autori, nonché Adriano D’Ecclesiis e il giovane, vitalissimo, musicalissimo Ensemble Erythraeum) e il pubblico si è subito instaurata una sintonia di affetti. È la forza e la magia dell’essere lì in carne e ossa, gli uni e gli altri, pubblico e interpreti, entrambi consapevoli della potenza emotiva del rito nonché della sua carica rivoluzionaria in un universo sempre più sottratto alla carnalità dei rapporti sociali in favore di una virtualità globale.

Sicché sono grato al circuito Teatri Uniti di Basilicata per aver organizzato una piccola rassegna dedicata tutta a «La scena lucana» programmata nei vari teatri della Regione: dal delizioso teatro Francesco Stabile di Potenza (un gioiello ottocentesco, costruito a imitazione in miniatura del mitico San Carlo borbonico, benché inaugurato dai Savoia) al curioso teatro Comunale di Matera (una ex chiesa con tanto di enormi colonne doriche, poi ex cinema e ora sala polivalente adornata da bizzarre pareti tinte di un rosso sgargiante) fino, appunto, all’assurdo Auditorium di Avigliano. In questi e in altri spazi atipici, solo apparentemente alla periferia del grande circuito teatrale italiano, Teatri Uniti di Basilicata ha programmato cinque spettacoli di altrettante (giovani) compagnie lucane con il chiaro intento di mettere a confronto diretto pubblico e artisti nel segno di un’identità condivisa: non a caso, tutti gli spettacoli programmati erano centrati sul disagio. Disagio giovanile, prima di tutto, ma anche sull’isolamento in generale. Perché questa è la condizione che la Lucania patisce prima di tutto: l’isolamento.

petra-per-prima-cosaE, a teatro, isolamento vuol dire carenza di confronto, ciò di cui la creatività scenica maggiormente si giova, da millenni, riuscendo a mettere in circolazione emozioni e illusioni di intere comunità le quali, attraverso il teatro si auto-rappresentano e si consolidano. Proprio come mi è capitato di vedere ad Avigliano, appunto. Ossia in un paese con una sua storia lunghissima (è di fatto il luogo che, nel tempo, ha dato corso, sostanza e cittadini a Potenza), con una tradizione artigianale perduta e una nuova identità tutta da ricostruire. Anche a partire dal teatro. Speriamo, almeno.

Ebbene, nel mio piccolo tour lucano ho visto tre spettacoli. Oltre quello cui ho accennato (dal titolo Shakespeare in Balkan, della compagnia Gommalacca: un bignami shakespeariano recitato come un canovaccio da Commedia dell’Arte e accompagnato da vispissimi musicisti di scuola balcanica, cioè di strada, nella foto accanto al titolo), ho assistito a Per prima cosa, di e con Antonella Iallorenzi e Fabrizio Pugliese e la regìa di Fabrizio Saccomanno (un aggiornamento in chiave lucana di Uscita di emergenza di Manlio Santanelli, nella foto sopra) e a Lemmings di Laura Grimaldi con Alessandra Maltempo, Donatella Corbo e Michele Stella con la regìa di Vania Cauzillo (le avventure “normali” di tre aspiranti suicidi dei quali solo una saprà arrivare fino in fondo al proprio terribile proposito, nella foto sotto). C’erano poi altri due spettacoli in rassegna: Ashes to ashes di Harold Pinter con Monica Palese e Antonio Grimaldi per la regìa di Leonardo Pietrafesa e Studio per una fuga di Andrea Santantonio con Nadia Casamassima, Anna D’Adamo, Erika Grillo, Rossella Iacovone, Antonio Lifranchi, Vincenzo Paolicelli e Alì Sohna.

lalbero-lemmingsSi è trattato di un’esperienza molto interessante per tre motivi. Il primo è la gioia di aver visto tanta vitalità teatrale: lontano da Roma e da Milano, sovente, la voglia di partecipare è molto più sentita e autentica, meno legata a una ritualità sociale ormai depauperata del suo pieno valore emotivo. Qui il pubblico partecipa, eccome: non per convenzione ma per soddisfare un desiderio di vita. Il secondo è un senso di creatività diffusa, magari non sempre composta o ben gestita, ma certo evidente: come di chi abbia scelto comunque di raccontarsi tramite il teatro. Ripeto: è l’atto rivoluzionario – oramai – di una comunità sottoposta alla tirannia del nulla che transita nei nostri computer, nelle nostre televisioni, nei nostri smartphone. Il terzo motivo d’interesse è legato proprio al limite comune ai tre spettacoli cui ho assistito: una loro certa precarietà scenica (che si esprime a volte in un’eccessiva disinvoltura o, soprattutto, in certe pericolose cadute di ritmo), ci dice molto su che cosa debba essere, in realtà, il teatro. Ossia il frutto di un confronto stringente fra artisti differenti. Solo così si combatte quella autoreferenzialità che in palcoscenico si esprime con la (sbagliata) convinzione di poter saltare dei passaggi logici e tecnici. E invece in scena tutto va confrontato e misurato continuamente tramite sensibilità differenti, magari anche divergenti: questa è la ricchezza, propriamente, di una creatività che è, sì, autorale, ma certamente dipende moltissimo dall’apporto di molti.

Questo, del resto, non è in modo specifico un limite delle compagnie in questione, ma il portato di quella condizione di isolamento forzato (quello del nostro Mezzogiorno) cui facevo cenno in precedenza e dalla quale spesso è difficilissimo uscire. Perché la medesima condizione impedisce di percepirne i limiti: spesso, in un gioco drammatico di rimandi tra vittime e carnefici, il nostro Mezzogiorno è indotto a non conoscere le ragioni del proprio essere vittima. Proprio per ciò, l’iniziativa del consorzio Teatri Uniti di Basilicata è encomiabile: perché rompe quell’isolamento mettendo in rete chi pensa e produce teatro in Lucania, costringendo gli artisti al confronto con se stessi e con i pubblici (diversi) della Regione. Ma occorre sottolineare che si tratta di un punto di partenza, non quello di arrivo della nuova scena lucana: sarà utile alla creatività di questa terra se ciascun artista, tramite questa esperienza, saprà riconoscere meglio i propri limiti per superarli. L’autoreferenzialità è una brutta bestia; non solo ai piani alti. Ma la maturità complessiva di questa terra, in termini di programmazione e progettazione culturale, lascia ben sperare.

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