Alberto Fraccacreta
L’elzeviro secco

Gli occhiali di Dylan

Riflessioni sul Nobel al “vate di Duluth” che ha creato uno stile inseparabile dalla sua persona (come i Ray-Ban sul suo naso). Senza mai cercare una sovrapposizione di generi piuttosto realizzando un’addizione di fattori estetici...

C’è da scommettere che, se Dylan ritirerà il Nobel, lo farà con i Ray-Ban sul naso. Il vate di Duluth, ormai l’uomo più premiato al mondo (non si vedrà mai più un autore che è contemporaneamente Premio Nobel, Pulitzer e Oscar), ha creato uno stile inseparabile dalla sua persona. Il fraseggio nervoso, e a tratti sciropposo, delle sue canzoni non può essere sottratto dai testi e dalla musica: siamo dinanzi a una totale coincidenza tra l’opera e l’artista, che non ha ragion d’essere nel mondo della letteratura, entro i confini del quale sono indifferenti o, quantomeno, irrilevanti – rispetto ai loro romanzi, intendo – il viso di Kafka, i baffi di Proust, gli occhiali da sole di Borges. Una lirica dylaniana è Dylan, nel senso che ascoltandola pensiamo alla bocca che si storce sul microfono, ai vestiti sgargianti, ai lineamenti semiti, ai capelloni cotonati. «Non mi definisco un poeta perché non amo quella parola. Sono un artista del trapezio».

In oltre cinquant’anni di carriera, il menestrello ha dimostrato che la canzone d’autore può avere affinità con la poesia e la letteratura, ma egli stesso non ha mai cercato veramente un’indesiderata sovrapposizione di generi. Ritengo che il suo vertice “poetico” sia Series of dreams: ha davvero dignità letteraria? «Sogni in cui l’ombrello è piegato/ e sei scagliato lungo il sentiero/ e non sono buone le carte che hai in mano/ a meno che non provengano da un altro mondo». L’addizione di parole, musica e video (https://www.youtube.com/watch?v=AgqGUBP3Cx0) concede, senz’altro, al fruitore un’esperienza estetica molto più entusiasmante di quanto possano comunicare i versi di un poeta mediocre. Si parla, appunto, di un’addizione di fattori estetici: se li scomponiamo, il risultato non è il medesimo. Questo perché, nel dominio della cultura delle immagini, la canzone si veste di gradienti emotivi che la elevano, mentre la poesia rimane ciò che è sempre stata: nuda praxis di parole in successione ritmica (molto opportunamente è stato detto che la poesia ha una sua musica). Il parallelo con la rapsodia omerica, i lirici greci e latini, e la tradizione trobadorica è fallace, nonché fuorviante, in quanto di essi non possediamo le musiche, concepite per altro come mero accompagnamento o risacca di esaltazione della parola.

Mi sembra che nessuno, in questi giorni di burle sui giornali e sul web, abbia parlato con cognizione di causa dell’unica vera opera letteraria di Dylan (assieme alla sua autobiografia, un must per i cantautori americani e per i calciatori del campionato italiano): Tarantula. Siamo nel 1966, la fama del “Judas” elettrico è alle stelle. Non fosse stato per il mitologico incidente in sella alla Triumph Tiger T100 sulla via di Bearsville, l’editore Macmillan avrebbe pubblicato e venduto il romanzo come un best-seller; i critici musicofili lo avrebbero sviscerato e stigmatizzato con sacro rigore; il pubblico avrebbe gridato al capolavoro.

aretha/ cristal jukebox queen of hymn & diffused in drunk transfusion wound would heed sweet soundwave crippled & cry salute to oh great particular el dorado reel & ye battered personal god but she cannot

bob-dylanQuesto l’incipit straniante di un romanzo (?) che, sin dalla grafica, ha la deliberata pretesa di annullare sul nascere qualsiasi appiglio formale al canone letterario. Tarantula è, infatti, un “boccalibro”, un testo cioè che va assunto per bocca, letto a voce alta fino a inghiottire le aggressioni fonetiche che costantemente torcono la linearità della pagina scritta. Non esiste storia, non esiste intreccio, non accade nulla all’infuori dello stesso parlato: è un riflusso gratuito nel quale l’emissione linguistica, costruita sulla base dello sberleffo e della violenza alla sintassi, domina incontrastata. È manifesta la volontà di opporsi in toto alla concezione creativa tipica della letteratura europea, secondo la quale il rispetto della coerenza interna all’opera, anche quando essa presenti l’aspetto “paradossale” del reale (Gogol’, Dostoevskij, Bulgakov), si mostra sotto forma di un microcosmo consequenziale per cui ogni personaggio e ogni azione intrapresa sono pienamente spiegabili e concepibili in sé, sono cioè frutto di un continuum logico-razionale. Da qui la vertigine del lettore, il quale è costretto dai fatti e dalla sapienza retorica del narratore ad assentire dinanzi alle scelte dell’eroe, benché l’esperienza esistenziale lo vieti.

Il tentativo dylaniano, dunque, non offrendo nulla all’infuori di un puro negativo, perde sin dalle prime battute quel tono polemico che conferisce al testo il ruolo di legislatore di un linguaggio e di un pensiero affatto inediti. Tale, a ben vedere, è stata la sorte di molte avanguardie novecentesche la cui massima aspirazione risultò quella di far piazza pulita del rimando al “primigenio”, il cosiddetto oggetto destinante, luogo di privilegio verso cui tende lo scrivere. Il romanzo si ridusse cioranianamente a un «rigurgito dell’Io», al narcisismo del Sé proiettato nel caleidoscopio del Tutto, la cui essenza e finalità si aduna (e, oggi, lo si riesce a scorgere chiaramente) nella frenesia dell’autoaffermazione. Tarantula, come un qualsiasi testo beat o post-beat dell’epoca, è vitale testimone di una letteratura con i “nervi scoperti”, colpita dalla ridondanza del vivere e del parlare, perché il protagonista di ogni intreccio narrativo è stato abolito dalla vicenda e si procede in direzione di un pericoloso appeasement letterario nel quale ciò che scritto è scritto. La finalità ultima di Tarantula coincide proprio con il voler mostrarsi “racconto infinito”, fluttuare di parole anarchiche che non si situano nel contesto della storia né in quello della metastoria, per cui il significato di fondo non può essere trasceso.

Tornando ai testi cantautoriali, per la rivista In limine dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, scrissi un paio di anni fa un articolo sulla reticenza quale categoria fondamentale del moto poetico in Montale e Dylan. Non per paragonarli, ma per dimostrare come l’aposiopesi – termine tecnico che dirama la reticenza nelle declinazioni di logos che non dice e logos dell’ineffabile – sia un processo letterario talmente connaturato alla poesia, che si può trovare intuitivamente anche in alcune, bellissime, canzoni, le quali evidentemente imitano o addirittura afferrano motu proprio un’essenza lirica, tuttavia permanendo nello status di componimento musicale.

L’assegnazione del Nobel a Dylan cambia un po’ il modo di valutare e definire il concetto di letteratura. Abbiamo assistito a una svolta pop, da parte dell’Accademia, riguardo a tale concetto: la decisione è storica, perché investe il nostro modo di pensare la letteratura. La canzone rientra in un ambito letterario; il cantautore può essere definito, a tutti gli effetti, poeta, narratore. Se è vero che Dylan è stato e continua a essere “voce di generazione”, rappresentante a fasi alterne di cultura e controcultura, il valore letterario intrinseco, come si è visto, della sua prosa non è paragonabile a opere di scrittori stricto sensu, anche suoi connazionali. Né tanto meno i testi delle sue canzoni, ancorché evocativi, ricchi di immagini e trovate linguistiche sorprendenti, perfettamente armonizzati allo spirito della musica, riescono del tutto a colmare il gap tra canzone e poesia, sino ad agguantare la dignità di quest’ultima. La motivazione è, a suo modo, esatta: Bob Dylan «ha creato una nuova poetica espressiva all’interno della grande tradizione canora americana». Nulla da eccepire; è proprio così: «all’interno della grande tradizione canora americana».

Alessandro Carrera, uno dei massimi studiosi del cantautore del Minnesota, ha dimostrato, in parecchi suoi contributi critici (vd. in particolare le note a Bob Dylan. Lyrics 1962-2001), che le canzoni di Dylan nascondono una complessa architettura di citazioni bibliche, letterarie, psicanalitiche e filosofiche. Rimbaud, Verlaine, la cabala, l’Ecclesiaste, Dylan Thomas, Jung passeggiano spesso e volentieri nelle strofe e nei ritornelli di autentici capolavori del folk-rock come Highway 61 Revisited, Blonde on Blonde, Blood on the Tracks, Time out of Mind. Ma la letteratura non è la sua destinazione. Il campo semantico a cui Dylan fa riferimento, i modelli con cui dialoga, l’asse diacronico e gli stati della tradizione nei quali si muove, appartengono proprio a quella immensa saga di blues e folk che, grazie al suo estro, alla sua bizzarra genialità, ha rinnovato e riscritto per sempre. L’aver innalzato vertiginosamente la canzone al rango di un qualcosa che ha affinità con la poesia, vale davvero il Nobel? Che senso ha per un poeta, da oggi, ambire a tale riconoscimento, il quale non ha ben chiaro né tiene conto del preciso campo in cui indaga? La risposta, amico mio, soffia nel vento.

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