Ilaria Palomba
Un viaggio nella terra e nello spirito

Perdersi in Nepal

«Penso di perdermi per la città e di ritrovarmi chissà dove, a celebrare chissà cosa, con chissà chi. E sento che solo perdendomi potrò vivere davvero un altrove. Finché resterò nei ranghi resterò europea e tutta questa bellezza sarà una chimera impenetrabile»

Sono partita per il Nepal in un viaggio di ricerca. Sono cieca ai luoghi ma vedo oltre le cose. Durante i viaggi ciò che vedo, l’esperienza che ne faccio, abita dentro e non ha nome.

Posso dire che allo scalo di tre ore tra Roma e Kathmandu, ad Abu Dhabi, ho visto una coppia piangere, lei occidentale, lui arabo o giù di lì, si salutavano come fosse un addio. A quanti addii mi sto condannando? Ne ho parlato tutto il tempo con l’uomo che mi sedeva a fianco sul volo verso il Nepal. Posso dire di aver visto, sempre ad Abu Dhabi, delle donne asiatiche chiuse in un burqua ma con iphone d’ultima generazione in mano.

Posso dire della polvere, dello smog, dell’odore di benzina che si respira a Kathmandu. La notte, appena giunti, la coordinatrice Chiara ci saluta con un Namasté e una ghirlanda di fiori arancioni. Il Monastero con la Guest House Benchen Vihar è s’una altura, in un luogo non caotico di Kathmandu. Alle dieci chiudono i cancelli. Alle cinque di mattina cominciano le puja, cerimonie buddhiste. Alle otto e mezza colazione. Alle nove e mezza insegnamenti con i Lama. Le domande sono infinite. Le risposte semplici e quasi impossibili da applicare. Il buddhismo non è teoria, è una pratica esistenziale da seguire giorno per giorno. Non puoi dire sono buddhista e poi mangiare carne, non puoi dire sono buddhista e poi provare invidia, gelosia, possesso. Non puoi dire sono buddhista se non vuoti la mente separandoti da ogni forma di attaccamento. Non puoi dire sono buddhista se non conosci le quattro nobili verità e l’ottuplice sentiero. Non puoi dire sono buddhista se non senti il tuo sentire fondersi con il sentire degli altri, se non consideri tua la sofferenza del mondo, se non esci dal tuo piccolo labirinto egoico di illusioni.

Ho domandato a uno dei lama che c’insegnavano il buddhismo al mattino: «Cosa accade quando uno tenta il suicidio? Genera karma negativo? In cosa si reincarna?»

Ha risposto: «Guarda altrove, guarda oltre te stessa. Chi pensa al suicidio non vede altro che il proprio ristretto orizzonte. C’è tutta una infinita serie di cose dolorose al mondo, che il dolore di un suicida è così piccolo. Il suicidio pone un karma che si ripete. Un gesto che si è condannati a ripetere finché non si purifica il karma».

«Come si purifica?» ha chiesto qualcuno.

«Con le prostrazioni, le buone azioni, le intenzioni positive».

Nepal3Chi pensa al suicidio non vede che il proprio ristretto orizzonte… posso dire che questa frase mi sia risuonata dentro e ancora risuoni spaccandomi in quattro. Posso dire di aver desiderato radermi i capelli e seguire il misticismo buddhista mentre presenziavo a una puja di monache in un tempio di Kathmandu. E durante la ripetizione di mantra e tamburi e trombe e gestualità ipnotiche, tra statue di Buddha e colonne rosse e pareti affrescate con la ruota del Samsara, ho visto qualcosa, sì, qualcosa di inverosimile. Un giardino. Una casa dai mattoni arancio salmone. Un corpo riverso sull’asfalto. Inerme. Il mio corpo. Il mio corpo. Ho temuto per quel corpo che era me ma era fuori. Un lungo serpente nero sgusciava via. Ho visto un uomo dai capelli neri fuggire e attraversare un ponte nella foresta. Mi sono ridestata e ho ricominciato a seguire il ritmo ipnotico delle voci femminili unite in un canto estatico. Per loro le puja non sono rituali mistici, sono cerimonie, come le nostre messe, dedicate alle più svariate divinità del pantheon induista e buddhista. Ne ho viste altre. Non facevo che seguire puja ricercando la stessa visione di quel 14 agosto che non è mai più tornata.

Il 23 agosto a Pharping avevo fatto voto di silenzio e digiuno insieme a uno studioso di Cabala, un parkourista yogi sciamanico, un osteopata molto olistico e un’insegnante di yoga adorata dai sadu, o baba che dir si voglia, quando le monache ci hanno invitati a restare a colazione con loro e abbiamo mangiato enormi momo (ravioli) caldi e pancake, bevendo latte di capra. Loro ci guardavano e ridevano. Noi, con quella buffonata del silenzio e gli smartphone in mano, non eravamo poi così credibili. Il digiuno l’abbiamo posticipato alla notte, quando ci siamo lasciati travolgere dall’ebrezza dei canti e, con la voce registrata della puja del mattino, abbiamo iniziato a danzare come sciamani nella stanza di un monastero deserto, fino a crollare esausti.

Kathmandu ha l’odore della polvere, un clima tremendamente pesante, si tossisce tutta la notte. Al Benchen Vihar, il monastero con la guest house dove alloggiavo, ci sono le scimmie che scendono dai tetti e s’infilano nelle stanze a rubare il cibo. Una volta, durante un’escursione in un tempio sui monti, è accaduto. Una scimmia ha rubato un sacco di banane a una di noi. Facevamo trekking sui monti cercando un tempio e guardando di nascosto cerimonie sadu con vecchi baba dalle lunghe barbe e gli abiti arancioni, una ragazza del gruppo viene chiamata ad assistere, lei è insegnante di yoga e ha fatto un ritiro in India tempo fa. Tutti i baba la riconoscono e la chiamano, come una specie di risuono segreto di indicibili vibrazioni. Una notte mi ha raccontato di promesse di insegnamenti segreti e oscure iniziazioni. Con lei ho legato, ci sono cose del viaggio che non si possono spiegare, come le assurde coincidenze tra le vite delle persone, incroci di date di nascita e improbabili nomi dati alle cose casualmente simili, casualmente uguali. C’è stato il giorno in cui abbiamo beccato i monsoni in piena durante una visita a Bhaktapur, antica città newari nella parte est della valle di Kathmandu, con tutti quei templi a forma di pagode, il tempio dell’Amore dedicato a Krishna, la statua della Chimera. Subas, la guida, ci spiega la differenza tra Stupa e Pagode, di cui afferro solo che Stupa sono soprattutto buddhiste, fatte a cupola con gli occhi del Buddha e il simbolo a forma di punto interrogativo che sta a significare l’Uno, l’unità ultima con l’esistente, mentre le pagode possono essere buddhiste o induiste e hanno un’architettura diversa, con tetti spioventi e ruote della preghiera tutte intorno da percorrere in senso orario. Cammino nell’atmosfera arrossata di Bhaktapur. Mentre alcuni del gruppo scattano fotografie raggiungo la cima di un tempio e guardo da lì su l’assoluta bellezza del creato. Ripenso alla puja del 14 agosto, alle monache, alla visione e piombo nuovamente nel samsara delle aspettative. Mi allontano dagli altri, non riesco a guardare fuori, come se il mondo fosse compresso nelle mie stolide problematiche esistenziali. I tuoi problemi rispetto al male del mondo sono nulla. Le parole degli insegnamenti del mattino risuonano e creano fenditure nell’illusione della coscienza.

Nepal6A Bhaktapur alcuni monumenti sono stati danneggiati dal terremoto del 25 aprile 2015, più di sessanta. Qualcuno prima della partenza mi ha detto che si è diffuso il colera e se si beve l’acqua corrente si rischia di prendere il Tifo o l’epatite A. Non ho fatto i vaccini. Non ho pensato a nulla se non a lasciarmi alle spalle il futuro. Il futuro va messo in epoché qualche volta. Le parentesi si chiamano pelle. La pelle va dissipata se si vuole apprendere qualche cosa di nuovo. Ma adesso ho paura. Scendo dall’altezza del tempio che ho guadagnato con affanno. Ho perso gli altri del gruppo. Penso di perdermi per la città e di ritrovarmi chissà dove, a celebrare chissà cosa, con chissà chi. E sento che solo perdendomi potrò vivere davvero un altrove. Finché resterò nei ranghi resterò europea e tutta questa bellezza sarà una chimera impenetrabile. Il mio karma non è quello della dissipazione, o forse non più. Un ragazzino dalla maglietta verde stropicciata mi ferma e, parlandomi in inglese, mi dice che mi porterà dagli altri italiani. Agli angoli delle strade le venditrici di pomodori hanno sguardi pregni di serena rassegnazione e barbieri dell’ultimo minuto radono gente la gente lungo i portici. Ritrovo gli altri e do cento rupie al ragazzino salvatore. I suoi occhi grandi e neri s’illuminano. I negozi ci rapiscono. C’è chi compra campane tibetane e chi mandala, chi amuleti e chi collane. Entro in un negozio di tanka e il venditore mi spiega in inglese di cosa si tratta. Il tanka è in generale un dipinto devozionale buddhista e induista tipico dei tibetani. Il mandala è un tipo particolare di tanka, un grafismo simmetrico caratteristico della cultura dei Veda. È un disegno geometrico che deve rispecchiare la circolarità dell’universo, una mappa rituale e devozionale della Terra. Si può usare anche per meditare, così come la campana tibetana, che racchiude in sé ed emana la vibrazione del sacro Om. Alcuni mandala raffigurano invece la vita del Buddha e le sue incarnazioni.

Nepal4Ci sono molti modi di vivere il buddhismo. Nell’accezione filosofica, ma di una filosofia pratica e morale, che poi è il Dharma e ha a che fare con una pratica esistenziale votata alla noluntas, quindi al risveglio mediante la strada della rinuncia, della compassione e della prostrazione. C’è anche un modo meno filosofico e più mistico, molto difficile da spiegare a parole, va piuttosto vissuto nelle puja, attraverso l’ascolto, la recitazione di mantra e la visualizzazione interiore. Un po’ quel che mi è accaduto durante la prima puja. Uscendo dal negozio ritrovo nuovamente il gruppo. Le venditrici ambulanti ci tampinano e parlando un italiano raffazzonato cercano di venderci qualsiasi cosa, ci sfiniscono finché non cediamo. Qualcuno crede di aver fatto un buon affare acquistando dieci borsette di stoffa per cinquecento rupie.

In pullman cantiamo brani di canzoni italiane, con una specie di nostalgia di casa e insieme desiderio di non tornare. Affacciati ai finestrini siamo irretiti dal traffico violentissimo di Kathmandu, che è anarchico e privo di direzioni. Sento battere sul pullman: è semplicemente un uomo che sta per essere investito, qui va così. C’è tutto un caos e un degrado di clacson e traffico e inquinamento e palazzi crepati ma sotto la spessa coltre di sporcizia, caoticità e degrado si nasconde la serenità di un popolo che vive ogni estremo senza scomporsi, una forma di adesione incondizionata all’imponderabile con la conseguente accettazione della vita che è caos, velo di Maya, ma oltre il velo c’è l’Atma. Ho l’impressione di essere nel centro del mondo, dove tutto è sfinito ma anche perfettamente in pace con il resto, in comunione con il cosmo.

La sera camminiamo a piedi per Thamel, il quartiere dei negozi e dei ristoranti, non si sente altro che un lungo clacson strombazzante e pare di poter essere investiti in ogni momento. Mangiamo al ristorante Il terzo occhio pollo al curry e riso speziato e minestre di lenticchie e dolci di riso.

Al mattino, alle 7:30, facciamo meditazione con Chiara (ribattezzata Manusree in Nepal), la coordinatrice del gruppo, una misteriosa bionda friulana dai grandi seni e gli occhi verdi, di una bellezza eterea. Con lei c’è la meditazione prima della colazione e degli insegnamenti dei lama. Ci spiega il significato della parola radicamento. Essere radicati, mettere radici, significa essere presenti a se stessi, avere la capacità di iniziare una giornata, stare sulla terra. Guidata dalla sua voce immagino le gambe incrociate sul linoleum divenire radici e crescere nel fondo della terra. Penso al concetto di rizoma in Mille piani di Deleuze e Guattari. Ecco, la terra mi manca. Come la visione avuta il primo giorno e poi così difficile da rievocare. Me l’ha detto Federico, colui che abbiamo soprannominato: lo sciamano. La sera al Benchen Vihar qualche volta restavamo a parlare e l’ultimo giorno l’ho accompagnato per tutta Thamel a cercare un vestito per la sua ragazza. Era bello parlare con lui sulla larga balconata della guest house, prima di cercare di prendere sonno, tra zanzare e aria troppo umida per i miei disagiati bronchi di asmatica. Una notte abbiamo visto un pipistrello e ci è sembrato di averlo evocato con i nostri discorsi. Una sera mi ha parlato di questa storia del radicamento, che ha a che fare con il mantenimento delle cose nel tempo, le conquiste che si fanno vanno mantenute con pratica ed esercizio quotidiano. Mi manca saper mantenere in vita relazioni che non siano legate al puro impeto passionale e mando in rovina tutto ciò che conquisto. Ho trovato il problema, è già tanto. Per la soluzione magari aspetto la prossima vita. Mi addormento alle 4:00 per via dell’asma e di mille demoni che non mi lasciano dormire. Alle sette del mattino mi sveglio con le palpebre gonfie e le occhiaie. La mia compagna di stanza, una programmatrice informatica in pensione e ora iscritta a Fisica, mi sveglia puntualmente un’ora prima della colazione. Talvolta però salto il primo pasto e mi rimetto a dormire fino all’ora degli insegnamenti.

Nepal5A metà soggiorno facciamo visita in due case famiglia per bambini. La prima è una casa in stile vittoriano. Conosciamo un gruppo di ragazzine dai dieci ai diciotto anni. Qualcuna di loro ha già le idee chiare sul proprio futuro: chi vuole diventare medico, chi insegnante, chi ingegnere. C’è un’atmosfera pacata, gioiosa e l’odore del té. La seconda casa famiglia è meno allegra. Bambini senza braccia o con il viso ustionato. Offriamo loro vestiti e un pranzo in una piccola tavola calda lì vicino. Nell’orfanotrofio le condizioni igieniche sono pessime. Entriamo e ci sono delle ragazze che rasano la testa alle bambine per via dei pidocchi. Durante il pranzo guardo sotto il tavolo ed è pieno di ragnatele. C’è una bambina magrissima dagli occhi grandi come diamanti, sembra avere tre anni invece ne ha cinque. Non vuole mangiare, rifiuta il cibo ed è una specie di mina vagante. Avrei voluto giocarci di più. Tutti gli altri del gruppo giocavano con loro, io avrei voluto tantissimo ma ci ho messo delle ore prima di parlare con qualcuno. Era tutto un profluvio di sensazioni troppo scioccanti e la mia mente deve aver alzato una specie di barriera, perché tutto quel dolore lo sento troppo, fa troppo male. C’era una bambina con il viso, il naso, le labbra coperte di cicatrici da ustione o non so quale malattia. Chissà cos’avrà avuto. Si scansava sempre durante le foto di gruppo e aveva lo sguardo buio di chi conosce cose che alla sua età non si dovrebbero nemmeno vagheggiare. Una ragazza del gruppo l’ha aiutata a mangiare. Io sono restata in un angolo a guardarla e sembrava mi ricambiasse sguardi ostili. Invece alla fine mi ha abbracciata. Ho avuto come la pulsione di staccarmi, pensando alle malattie e ad altre stolide barriere emotive. Poi mi sono lasciata andare al contatto, chiudendo gli occhi. Sentendomi piccola e miseramente inutile di fronte a un male così grande. Nella mente risuonava la frase del lama. I tuoi problemi rispetto al male del mondo sono nulla.

La notte, prima di dormire, al Benchen, restavamo a lungo in una stanza a fumare e bere birre comprate alle bancarelle fuori dal monastero e portate dentro di soppiatto. C’era una stanza in cui ci riunivamo. Quella stanza ha assunto la consistenza di uno psicodramma collettivo. Qualche volta qualcuno esagerava nell’esporsi e finiva in qualche modo vittima del suo stesso desiderio di comprensione, per me è stato così. In altri momenti però quella stanza era pura potenza. Desiderio di tornare adolescenti. Un gioco infinito di bambini che cercano la luce. Ciascuno di noi ha raccontato la propria storia. Qualcuno ha giocato con i desideri senza mai realizzarli. Qualcun altro ha ironizzato sulle tragedie alleggerendo l’atmosfera. Si faceva il gioco delle imitazioni. Abbiamo iniziato con la guida Subas, ripetendo le sue frasi in italiano con accento nepalese, o giocando sul fatto che volesse assolutamente e improrogabilmente portarci nei negozi, ristoranti e centri massaggi dei suoi amici. In fin dei conti però l’abbiamo amato molto. Ci ha raccontato e sviscerato i segreti del Nepal e qualche volta sul pulmino ha intonato per noi canti tipici, come Resham Firiri o l’inno nazionale nepalese. Ci ha raccontato del Dalai Lama e dei monaci che fanno mandala di sabbia in mesi e mesi di duro lavoro per poi disfarli, perché tutto è vacuità e impermanenza.

Alle volte mi accorgo di trascorrere troppe ore a pensare. Le meditazioni del mattino m’inducono al non pensiero, ci provo e riprovo ma mi tornano su tutti gli attaccamenti, gli affetti, le persone che amo e temo di perdere. L’insegnamento buddhista si propone un amore con il segno di Agape non di Eros, in modo che non sia attaccamento materiale, non erotismo e passione, ma amore universale e compassione per tutti gli esseri viventi. Durante la visita a Durbar Square, il vecchio palazzo reale ora divenuto museo, Subas ci racconta la terribile storia del massacro dei reali: il Re Birendra e la Regina Aiswarya, assassinati dal principe ereditario Dipendra il 1 giugno 2001, il quale fu re per soli tre giorni perché dopo su di lui si abbatté una maledizione ed entrò in coma per morire poco dopo. Pare che da allora la monarchia sia decaduta. «Ora», ci racconta Subas, «c’è la repubblica e ci sono trentacinque diversi partiti, senza bipolarismo.»

A Bhaktapur, c’incamminiamo lungo Durbar Square, dove cortili e templi fanno da cornice al palazzo reale. Visitiamo il bagno del palazzo reale con un serpente di pietra tutt’intorno alla vasca termale. Il serpente torna sempre. È simbolo di fertilità. È una figura positiva, accompagna divinità come Shiva o Krishna. Alle volte però ha accezione negativa: per esempio posto al centro del mandala che raffigura la ruota del samsara, dove compare insieme al maiale e al lupo, animali impuri in quanto si nutrono di carne.

Nepal2Ci sarebbe molto altro da aggiungere ma questo non è un reportage e io non voglio parlare solo di luoghi, non voglio parlare per nulla di luoghi, questi sedici giorni in Nepal per me hanno significato abitare un altrove. Frammenti di discorsi carpiti dalla guida, visioni avute in meditazione o durante le puja, meditazione nelle grotte di Pharping, trekking verso la cima del colle, sempre a Pharping, racconti su dee bambine chiamate Kumari e scelte su centinaia attraverso la prova del buio e della paura. Mucche che ti sbarrano la strada mentre sei in macchina e non puoi fare nulla perché sono animali sacri. Puoi solo aspettare. Come puoi solo aspettare quando nel bel mezzo di una gita in pullman incontri carovane e processioni rituali. Quando sono tutti vestiti di bianco sai che è un funerale e probabilmente terminerà con una cremazione a Pashupatinath.

A Boudhanath kora abbiamo incontrato un medico tibetano e ci siamo fatti prescrivere pillole di erbe e metalli dal sapore terribile. Qui abbiamo visitato anche la scuola dei tanka e abbiamo comprato mandala, ne ho trovato uno verde acqua, bellissimo. Al monastero di Kopan abbiamo incontrato un Rinpoche, ovvero un lama che ricorda le proprie vite passate, e gli ho domandato quale sia la strada da seguire per evitare il giudizio. Intendevo il giudizio sulle culture che non sono la nostra, come ad esempio l’Occidente può giudicare l’Oriente e viceversa. Come il giudizio che sento aleggiare sugli autobus di Roma nei confronti di chi viene da lontano e non ha nulla. Ma anche solo il giudizio sulle persone che consideriamo diverse, inadatte, disadattate, come spesso mi sono sentita, specialmente all’interno dei gruppi di ogni genere. E lui, sempre tradotto dalla coordinatrice Manusree, ha risposto: «Abbiamo pensieri basati sui concetti della nostra mente, basati sulle delusioni. È naturale giudicare che l’altra persona sia inferiore. Dipende da come noi siamo cresciuti nella nostra società ed è anche in natura. Quando giudichiamo qualcuno inferiore dobbiamo guardare la nostra mente, se ti senti migliore dell’altro è solo per via dell’orgoglio e della gelosia. Non si può comprendere la verità giudicando dall’esterno. Bisogna analizzare la nostra mente e chiedersi perché giudichiamo quella persona inferiore. Cos’ha per te di sbagliato? La delusione deriva dalla nostra mente. Siamo diversi a seconda delle persone con cui parliamo. Alla fine chi ha ragione? Dipende dalla mente. Il risultato dipende da come usi la tua mente, se sei votato all’odio o alla compassione. Se qualcuno ti rende infelice tu devi dire: è la mia mente che mi proietta questa infelicità. Leggere tutti i libri del buddhismo non basta. Devi leggere la tua mente con il cuore.»

Alle volte non ho respirato. Fame d’aria. Apnea. A Kathmandu è accaduto. Era l’eccesso d’esistenza. A Pharping sono rinata, in una pujia, bevendo una specie di grappa dalle mani di una monaca. Non ho mangiato per dodici ore e non ho parlato. Al mattino mi svegliavo guardando i monti. Respiravo per la prima volta. Ho comprato un abito nero e dorato, con quello ho danzato la notte in un monastero semivuoto. Ho danzato anche durante una cerimonia induista a Kathmandu mentre un’iniziata mi cingeva il collo con un’altra ghirlanda di fiori arancioni identica a quella con cui mi aveva battezzato Manusree. Prima della partenza c’è stato un abbraccio, con ciascuno dei partecipanti. Separarci è stato un allontanarsi la prima volta da casa, con il timore dell’abbandono e la memoria di un vissuto che s’incide sulla pelle con le parole di un mantra, risuona, risuona e a lungo risuonerà, vibrando nell’aria.

Le fotografie sono di Ilaria Palomba

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