Raoul Precht
Periscopio (globale)

Cinema e malattie

Sempre più di frequente i film affrontano storie che coinvolgono individui malati. Ma spesso queste situazioni finiscono per paralizzare anche il nostro modo di esprimerle

Negli ultimi anni sono usciti diversi film imperniati su malattie nefaste e subdole, che vengono diagnosticate sempre troppo tardi e dalle quali non c’è praticamente scampo. Sembra trattarsi di un vero e proprio nuovo filone, al quale arriderebbe un certo successo, soprattutto in termini di pubblico (molto più moderatamente in termini di critica), e che però mette paradossalmente a nudo le difficoltà che il cinema, specialmente hollywoodiano, incontra al momento di dover affrontare certi temi.

La parte del leone negli ultimi tempi l’ha fatta la SLA, la sindrome laterale amiotrofica, malattia dall’insorgenza lenta e tardiva e dalle conseguenze letali, che a tutt’oggi non si riesce ad affrontare con qualche probabilità di successo. Una volta che sia stata diagnosticata, non c’è modo di evitarne il decorso neurodegenerativo, che porta al progressivo indebolimento della muscolatura, all’impossibilità di deglutire, parlare, spesso respirare, per cui all’asperità della malattia spesso si aggiungono anche interventi invasivi ma inevitabili come la tracheotomia.

Vengono poi le varie forme di paralisi e c’è il morbo di Alzheimer, su cui è incentrato il fortunato Still Alice, grazie al quale Julianne Moore ha vinto l’anno scorso il premio Oscar quale migliore attrice protagonista. Ma il morbo di Alzheimer, a seguito del quale il personaggio ben interpretato dalla Moore, una brillante docente universitaria di linguistica, comincia a perdere colpi fino a non riconoscere più i propri cari, fa in realtà da segnaposto per la SLA. Il film è infatti ispirato, mutatis mutandis, al calvario di uno dei due registi, Richard Glatzer, che, ammalatosi di SLA, sarebbe morto poche settimane dopo la cerimonia.

qualcosa-di-buono-hilary-swankIn You’re not You, sempre del 2014, uscito in Italia (chissà perché) con il titolo Qualcosa di buono (nella foto), un’altra attrice di grandi qualità, Hilary Swank, interpreta la parte di una pianista affetta appunto dalla SLA, che lentamente perde l’uso delle mani e finisce per dover rinunciare completamente alla musica. Se per certi versi sembra quasi la prosecuzione di un altro splendido e fortunatissimo film della Swank, Million Dollar Baby di Clint Eastwood, o almeno delle sue sequenze finali, dove si vede la giovane pugile combattere contro una paralisi che non le lascia scampo, qui Hilary Swank raggiunge un’interpretazione ancora più matura, di cui le va dato atto, ma che non basta a correggere un certo sentimentalismo di fondo, l’inverosimiglianza dei personaggi di contorno, a cominciare dal marito, e il fatto che la malattia sembra qui più che altro uno strumento per rivelare nuovi valori alla “badante”, una peraltro convincente Emmy Rossum.

In precedenza ci sono stati diversi altri film sull’argomento – non necessariamente sul tema della SLA, ma in generale su quello delle malattie senza via d’uscita – con una scansione, tuttavia, molto meno martellante. Ricordiamo qui almeno La forza della mente (2001), protagonista Emma Thompson per la regia di Mike Nichols, l’ancora stilisticamente insuperato Lo scafandro e la farfalla (2007) di Julian Schnabel, premiato a Cannes anche grazie all’eccezionale prestazione di Mathieu Amalric, The sessions (2012), con Helen Hunt (Oscar quale migliore attrice non protagonista) e Cake (2013) con Jennifer Aniston. Per finire questa rapida carrellata con The Theory of Everything (La teoria del tutto), film del 2014 con Eddie Redmayne sulla vita del fisico Stephen Hawking, affetto anch’egli da una forma di SLA (anche se alcuni medici sostengono che si tratti d’altro) e per così dire favorito da uno dei rarissimi casi di sviluppo estremamente lento della malattia, che gli ha permesso di continuare le sue ricerche e la sua attività professionale e di arrivare malgrado tutto a settantaquattro primavere. Un caso più unico che raro.

Dicevamo che tutte queste pellicole sul tema sembrano indicare, più che un interesse episodico, un vero e proprio filone. Ancora è difficile dirlo con certezza; di sicuro, però, l’improvvisa moltiplicazione nel triennio 2013-15 di lungometraggi sull’argomento testimonia dell’avvenuta sensibilizzazione dell’opinione pubblica (grazie anche a iniziative di grande presa mediatica come l’Ice Bucket Challenge), come pure del fatto che certe infermità e il loro trattamento tendono a uscire dalla cerchia di coloro che ne sono affetti e dei loro parenti stretti e a diventare argomento di denuncia e mobilitazione. È proprio questo, forse, l’aspetto meno trattato dai film hollywoodiani: l’impatto della malattia sui partner, sulle famiglie, sul mondo esterno. Nella maggior parte dei casi siamo di fronte a pellicole piuttosto convenzionali nel loro linguaggio filmico e nella loro struttura drammaturgica. Al centro della storia è ovviamente il futuro malato, ritratto dapprima nel pieno del suo vigore e della sua riuscita professionale; poi, questa traiettoria positiva viene spezzata dall’annuncio dell’infermità e assistiamo al difficile rapporto che con essa il protagonista deve instaurare, sostenuto spesso da personaggi di contorno di cui possiamo solo supporre il dolore e lo strazio; alla fine, il protagonista soccombe, lasciando lo spettatore con l’amaro in bocca ma anche con una sorta di senso di liberazione, avendo potuto oggettivare e proiettare su un estraneo la paura sempre serpeggiante che tutto questo possa invece capitare a lui stesso.

Linguaggio convenzionale, dicevo; e non posso fare a meno di domandarmi perché storie eccezionali non possano essere trattate in modo altrettanto eccezionale, con uno sforzo di fantasia che investa tutte le componenti del prodotto cinematografico. Un’eccezione, a dire il vero, c’è stata: ed è il già citato Lo scafandro e la farfalla, tratto da un libro autobiografico di un giornalista francese. La sindrome locked-in, di cui il protagonista soffre a seguito di un grave incidente cerebrale, gli ha paralizzato tutto il corpo e gli consente di muovere un solo occhio per poter comunicare; è proprio di questa limitazione che il film si avvale per descrivere minuziosamente, si direbbe quasi minuto per minuto, gli effetti che la menomazione provoca sulla vittima e su coloro che lo assistono e che cercano di favorirne il recupero. Lo sguardo del giornalista diventa così inquadratura permanente e unica prospettiva per lo spettatore, che perde qualunque autonomia ulteriore. Ciò che il protagonista non può vedere esce infatti anche dal campo visivo dello spettatore; e sebbene il film sia stato criticato a ragione per un eccesso di verbalizzazione, con cui la limitazione visiva è in qualche modo controbilanciata, resta uno degli esempi più convincenti di “trattamento” di una situazione intrattabile.

Lo stesso non può dirsi dei film più recenti proposti dalla grande industria. Anche quando si resti all’interno della misura, senza, voglio dire, eccessivi sbandamenti melodrammatici – è il caso tanto di Julianne Moore, quanto di Hilary Swank – va perduta la complessità della relazione tra lo sfortunato protagonista e il contesto, così come non si avverte alcuno sforzo di elaborare una grammatica e una sintassi filmica che sia all’altezza delle terribili circostanze che si stanno raccontando.

Un passo in una direzione più interessante lo compie in alcune sue parti il film sulla vicenda umana di Stephen Hawking: è il caso per esempio della scena della caduta, del groviglio delle membra di cui Stephen improvvisamente non è più padrone, resa con notevole maestria tecnica. Ma non bastano purtroppo singole scene, sebbene ben congegnate, a riscattare l’impressione generale di un vago disagio come dell’unica cosa che il cinema di oggi riesca davvero a opporre a certe realtà. Bisogna osare e magari, osando, sbagliare. Ma dobbiamo evitare a tutti i costi che queste malattie finiscano per paralizzare anche il nostro modo di esprimerle, ovvero l’unica risorsa che attualmente abbiamo per farcene una ragione, ed esorcizzarle.

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