Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Francesco Tomada

Artigiano della parola

Sottrarre lasciando solo il necessario, ciò che è già di per sé poesia. Un’operazione che il poeta goriziano cerca di fare con gli strumenti più semplici possibili. Il risultato è una scrittura immediata, antiletteraria che diventa necessità e insieme scelta…

È stata una lieta sorpresa scoprire un autore come Francesco Tomada, operante a Gorizia, città di confine che diede i natali a Carlo Michelstaedter e dove – a poca distanza, sul Podgora – morì Scipio Slataper. Si può affermare d’altronde che la poetica di Tomada risenta relativamente di influssi letterari, affondando le proprie radici in un “vissuto” che nulla concede sul versante stilistico (anche se in filigrana l’inquietudine di Michelstaedter è presente, si respira nell’aria stessa che circola, a distanza di un secolo, a Gorizia). L’ultima raccolta di Tomada, Portarsi avanti con gli addii (96 pagine, 12 euro), pubblicata da Raffaelli Editore nel 2014, si configura come una delle espressioni poetiche più fresche e convincenti di questi ultimi decenni, in virtù di una totale adesione a quella che Fabio Franzin ha definito «una realtà che ingabbia tutto fuorché lo sguardo».

Nella sua poetica è evidente il recupero di una dimensione quotidiana dell’esistenza, con tutte le sue implicazioni e problematiche. In questo senso mi sembra si possa sostenere che la sua sia una poesia “antiletteraria”. È d’accordo?
Direi di sì. La mia scrittura non è contro la letteratura – che amo – né contro alcuno; è prima di tutto per me, e per quanto riesco per chi ha la voglia e la curiosità di leggerla. Trovo però che la poesia, in Italia in particolare, si nutra di troppe sovrastrutture, sia linguistiche che intellettuali, che ne minano alla base la spontaneità e la forza comunicativa. Il mio intento, ma prima ancora il mio modo di concepire la poesia e di vedere le cose, è sottrarre lasciando soltanto il necessario, ciò che è già di per sé poesia; cerco di farlo con gli strumenti più semplici possibili, mi piacerebbe diventare un artigiano della parola. Il rischio maggiore è quello di cadere nella banalità, so di sfiorarla spesso e mi sforzo di avvicinare ma non superare il limite; so anche che alcuni ritengono che la mia scrittura sia troppo immediata, ma per me si tratta di una necessità e di una scelta, dunque va benissimo così. Sono convinto anche che il contrario, cioè scrivere in modo marcatamente “letterario”, spesso sia nel caso migliore un’esibizione di abilità, in quello peggiore una difesa, un mantenersi in un ambito di sicurezza.

Capovolgendo il celebre assunto di Pessoa, Fabio Franzin sostiene, a proposito della sua ultima raccolta Portarsi avanti con gli addii, che «il poeta non è un fingitore».
Fabio Franzin è un carissimo amico, fin troppo gentile con me. È vero che la mia scrittura ha una forte connotazione autobiografica; mi piacerebbe saper scrivere di altro, sapermi immedesimare di più (magari spaziando maggiormente in testi civili o politici), ma questo è il mio registro e ne prendo atto. Del resto credo che il primo valore che è doveroso mettere in poesia sia l’autenticità. In un tempo in cui la semplicità e la schiettezza nei rapporti umani non sono una priorità, sono convinto che vada fatto il tentativo di recuperare quella dose di verità che risiede in ciascuno di noi e che riusciamo a scavare ed esprimere.

Lei è impegnato anche sul versante delle traduzioni. Può parlarci di questa sua attività?
Ho una conoscenza abbastanza limitata delle lingue e riesco a tradurre in autonomia solo dall’inglese, ma negli ultimi tempi sono stato coinvolto in lavori di rivisitazione con traduttori e autori stranieri (Emilia Mirazchiyska, Aksinia Mihaylova, Milan Dobricic, Edward Hirsch) su poesie molto belle. È un lavoro stimolante: è splendido potersi mettere a disposizione completamente della scrittura di un altro, ma al tempo stesso è difficile capire qual è il limite da rispettare per non risultare troppo invadenti. Sto cercando di imparare, e in ogni caso addentrarsi così a fondo nella poesia altrui è di grande importanza anche per la propria crescita.

Non ritiene che i lavori dei poeti contemporanei siano spesso contaminati da troppa freddezza, troppa cerebralità?
Forse sì, in alcuni casi, però ci sono molti poeti bravi. Come dicevo prima, e come sottolinea ad esempio Stefano Guglielmin, secondo me quello che è importante è il valore di verità contenuto in una poesia, il modo in cui uno scrittore comunica l’attrito con il proprio tempo. Esistono per fortuna infiniti modi di farlo, e io apprezzo la poesia di autori apparentemente lontanissimi da me, che però riescono a suggestionare. Altri invece si fermano alla costruzione perfetta, complessa: bravi, bravissimi, ma non è quello che io personalmente cerco nella poesia.

Quali sono gli autori che hanno maggiormente contato nella sua formazione?
Io non ho una formazione letteraria. Ho iniziato a interessarmi alla poesia leggendo i grandi italiani di inizio Novecento, per poi proseguire fino alla contemporaneità con, ad esempio, Magrelli, Anedda e Benedetti. Moltissimo hanno influito e influiscono su di me i poeti che sono anche – per fortuna – amici, e con i quali c’è un confronto continuo: trovo che la scena italiana sia molto viva e valida, anche se ignorata quasi sempre da chi la dovrebbe promuovere. Soprattutto, però, mi sento vicino a diversi poeti dell’area balcanica e centroeuropea che, secondo me, trovano il giusto equilibrio tra espressività e tradizione, mentre qui da noi la seconda tende a prevalere sulla prima. Cito soltanto due grandi nomi fra gli altri: Izet Sarajlić e Wisława Szymborska.

Lei vive a Gorizia dove insegna biologia e chimica nelle scuole superiori. Come riesce a conciliare l’impegno professionale con il fatto di scrivere?
È ovvio che spesso il tempo non è abbastanza, ma secondo me si tratta di due aspetti che non sono in conflitto tra loro. Ho la fortuna di fare un lavoro che mi piace e mi dà molto; la scrittura viene invece da un atteggiamento di ascolto nei confronti della vita, di attenzione, che si dovrebbe tenere sempre per quanto si è capaci. Io non riuscirei a fare lo scrittore per mestiere. Il problema semmai è quello di non farsi travolgere dai centomila impegni che spesso impediscono di focalizzarsi su ciò che è davvero importante e non lasciano la serenità necessaria per la scrittura, ma questo vale per tutti.

Cosa sta preparando attualmente?
Sono molto lento nella scrittura, e avendo pubblicato l’ultimo libro un anno e mezzo fa non ne ho altri in vista né in progetto per ora; a breve potrebbe invece vedere la luce una plaquette a cui tengo moltissimo, ma non dico di più per scaramanzia. Cerco di proporre uscite interessanti sul sito Perigeion e nella rivista Smerilliana, due realtà con cui ho la fortuna di collaborare. E infine – esperienza del tutto nuova per me – sono stato coinvolto da alcuni amici carissimi nella costruzione di un lungometraggio.

Può commentare la poesia inedita presentata?
Questo testo esprime il mio fastidio per le fotografie, tutto qui. Preferisco il ricordo alle immagini, e infatti di mie ne ho pochissime. Come quella che le mando, scattata da Nino Iacovella.

 

***

 

tomada

Rewind

“Mettiti in posa e fai

una faccia contenta”

 

io però penso che ogni fotografia

sia un istante rubato per sempre

 

che se riavvolgessimo le nostre vite

tornando lentamente all’indietro

attimo per attimo

poi ne troveremmo alcuni che mancano, neri

 

ed erano proprio quelli

in cui stavamo sorridendo

Francesco Tomada

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