Arturo Belluardo
Italia, primo agosto/7

La multa e il funerale

«La madre era a metà, gonfia di bianco e di dolore, le avevo stretto le mani, lo smalto smozzicato e vermiglio. Un rantolo e le mani erano volate, quasi a graffiarmi il viso. Ma non ero io il bersaglio»

Io in chiesa non ci volevo proprio andare. Avevo scaricato Stefano là davanti con la scusa del parcheggio e mi ero allontanato per i viali deserti.

Solo una vecchia stempiata arrancava sul marciapiedi d’asfalto: le ruote del carrello della spesa si erano incollate al catrame bollente. Uno strattone, ancora uno. E il sedano era volato trionfante, seguito da pomodori e melanzane a ruzzoloni.

E niente. Era il funerale di un boy-scout. E mica potevo. Avevo fermato la macchina davanti a un cassonetto ed ero sceso ad aiutarla.

“Mbè?”.

Stefano mi guardava dall’alto, parandosi dal sole con la mano pelosa, mentre io carponi mi sporcavo d’asfalto la grisaglia grigia dei pantaloni. Ton sur ton.

“Ancora a perdere tempo? ‘Nnamo va, che s’è fatta ora. Non sta bene fare tardi a un funerale”.

“Ma… la macchina…”.

“E secondo te con trentasei gradi i vigili vengono a farti la multa? Già gli pesa il culo normalmente”.

“Trentasei, e sono solo dieci e mezza”.

“Non si può morire d’estate. Non si può proprio”.

E già. Non si può morire d’estate. Non si può morire a ventitre anni. Non si può morire così, come era morto Santiago.

Santiago, che nome assurdo, un nome da torero, da pirata dei Caraibi. E invece lui.

Santiago, che i suoi genitori l’avevano chiamato così perché l’avevano concepito durante il cammino di Compostela. Una sorpresa, un dono del cielo, avevano detto. Rimanere incinta dopo vent’anni dalla prima, Chiara.

Un miracolo. E che miracolo! Un figlio a cui gli organi crescevano più del normale, un figlio storpiato dall’interno, un figlio i cui dentoni erano spuntati quasi orizzontali, inchiodando le labbra in un sorriso perenne. Un figlio a cui non era mancato nulla, nemmeno la leucemia, nemmeno l’ago della chemio fuori vena, con il liquido mortale a ustionargli il braccio. A bruciarglielo in un tizzone.

E tizzoni sembravano gli spunzoni scuri della cancellata della chiesa, spine di una corona riarsa. Quant’era brutta la chiesa di san Massimiliano, un casermone di cemento armato e finti mattoni che svettava in una piazza anonima della Montagnola, dell’EUR dei poracci, dei vorrei ma non posso. I raggi bianchi del sole sembravano squagliarne il rosone, quasi fosse fatto di plastilina, di quel DAS che da bambini ci aveva macchiato i grembiuli azzurri.

Chiara era ancora sul sagrato, splendeva nel suo vestito blu fiammato, splendeva il suo sorriso amaro, evidenziava appena le rughe attorno alla bocca abbronzata.

Non riuscivo a non pensarla nuda, stesa accanto a me.

A quando eravamo.

“Chiara, mi dispiace tanto per tuo fratello”.

E la bocca mi era volata verso la sua, mentre me la tiravo contro per i fianchi.

Chiara si era divincolata con un passo di danza e mi aveva preso tenue per un gomito.

“Vieni, vieni a salutare mamma”.

La chiesa ribolliva dei borborigmi della folla, un popolo si era radunato a piangere Santiago, un alito collettivo che sapeva di marcio.

La madre era a metà, gonfia di bianco e di dolore, le avevo stretto le mani, lo smalto smozzicato e vermiglio. Un rantolo e le mani erano volate, quasi a graffiarmi il viso. Ma non ero io il bersaglio. Alle mie spalle stava passando la cassa bianca di Santiago e le unghie della madre le si erano avventate sopra, spezzandosi infuocate. Una striscia di carminio impercettibile sul legno bianco, l’ultimo ringhio della madre.

Le porte si erano chiuse alle nostre spalle, sulle nostre nuche fradice. Noi chiusi con la bara, mentre le fiamme dei ceri consumavano l’aria, lasciando solo vapore sudato.

Cercavo il corpo di Chiara con lo sguardo: aveva incendiato i banchi per un attimo, per finire inghiottito tra il celeste degli scout.

Giovanotti brufolosi dalle rade barbette incolte, ragazze sovrappeso, occhiali spessi, calzettoni blu al ginocchi, schierati davanti e accanto all’altare a evidenziare l’entrata in scena del prete viola.

“Non ci sono parole”, aveva esordito.

Non ci sono parole: non esiste, nella lingua degli uomini, una parola per descrivere un genitore che ha perso un figlio, per descrivere lo strazio infinito, l’impensabile, il sopravvivere al proprio futuro.

E questo rito collettivo, questo corpo di Santiago straziato e condiviso, questa comunione non esorcizza, amplifica; sulle onde di calore il dolore si ripercuote, solidifica l’aria in un magma rovente. Mi precipita in un qui e ora da cui fuggire.

Guardo Stefano, in ginocchio sul banco, le dita strette in un rosario, mentre il prete sparge incenso su Santiago. Non ho più dolore, non ho più respiro, non ho più saliva.

Sfilano gli scout sull’altare, speranze, coraggio, non arrendersi mai, grida ed esplode Chiara e finalmente sviene.

La portano fuori a braccia i necrofori, reggendola in alto per la schiena, quasi fosse un’etoile della Scala, i plissé dell’abito gonfiati dalle condoglianze, a scoprirle le gambe scure.

Provo a inseguirla, a uscire dietro di lei, ma gli scout hanno bloccato l’ingresso, formando una catena di braccia. Cantano Al fuoco di bivacco e mi guardano torvi e sudati.

Spezzo la catena, bruciato dagli sguardi di riprovazione.

Quasi inciampo nel lucore del sagrato, il tocco a morto della campana mi copre le orecchie.

Chiara è scomparsa.

Sul lunotto posteriore della mia macchina sventola una multa.

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