Andrea Carraro
Italia, primo agosto/6

Al mare con papà

«Accidenti, pa’, una medusa!». «Sei sicuro che sia una medusa?... Ma ormai l’hai superata, stai tranquillo!». Si sente lo stridio di qualche uccello marino, le voci dalla riva debolissime, lo sciaquio dolce dell’acqua

Quel primo agosto afoso e velato di cui vogliamo parlarvi, un uomo di mezza età, con capelli radi, grigi, pancetta, vestito con bermuda jeans e T-Shirt anonima, di un indefinibile colore fra il bianco sporco e il beige, guida una smagliante fuoriserie verde metallizzata. Quest’uomo si chiama Walter e dirige la filiale romana di una banca svizzera al centro di Roma. La macchina è nuova fiammante, ancora profumata di concessionario. Walter sta per raggiungere la sua vecchia casa, non lontana dal quartiere Salario dove vive ormai da qualche anno, che ormai gli è interdetta, benché lui ne sia ancora il proprietario. Grazie a una bizzarra e paradossale normativa nelle cause di divorzio che adesso non mette conto di spiegare nel dettaglio.

Non fa a tempo a scendere dalla macchina lasciata in seconda fila coi quattro fari lampeggianti che Luca – un marmocchio biondo di 11 anni, suo figlio, suo unico figlio – guizza fuori dal portone con l’espressione incredula e raggiante.

“Papino, ma scherzi?, l’hai comprata davvero!”

“Certo, oggi non è forse il primo agosto?”

“È vero, accidenti, non ci avevo pensato! I sedili, come sono morbidi i sedili…”

“Già e guarda qua…”

Il ragazzino si siede accanto al padre sul sedile del passeggero, che gli mostra le varie strumentazioni della sua fuoriserie ogni tanto accarezzandogli la testa coperta da una fitta trama di capelli cortissimi e chiari che sembrano grano. Finalmente mette in moto, dà un paio di sgassate e parte facendo slittare la frizione come un principiante.

“Dove andiamo, papà?”

“L’hai portato il costume?”

“Sì, sì,  lo porto addosso”

“Allora, mare o piscina?”

“E me lo domandi? Al mare… Così mi fai sentire come corre la macchina…” – dice il ragazzino che è magrissimo e ha il volto radioso.

Guidando lungo la Pontina, affogata in un sole fosco ma lo stesso penetrante, Walter prende una mano del figlioletto e la tiene stretta nella sua.

“Com’è andata la settimana? Tua madre?”

“Al solito”

Non parlano per qualche minuto mentre attraversano un paesaggio di capannoni industriali e campagne bruciate. Walter spinge il pedale dell’acceleratore con forza, quasi a tavoletta. Raggiunge su un rettilineo in un baleno i centottanta e allora rallenta.

“Sempre quel Massimo eh?”

“Sì, ma adesso non pensarci”

“No, non preoccuparti, era solo per sapere… Ma è venuto a casa?”

“Solo una volta… a cena…”

“Ti ci ha fatto mangiare insieme!?”

“Ora non prendertela con mamma!”

“Che sgualdrina!, che stronza!”

“Papà ti prego, adesso non cominciare!”

“Ok, ok…”

Arrivano alla spiaggia una mezz’ora dopo, sul litorale pontino poco prima di Anzio, all’altezza di una grande caserma di cemento rosa che pare disabitata, oltre la facciata e gli alti muri di cinta con garitta, lungo i padiglioni che s’intravedono parzialmente. Walter parcheggia la macchina sul margine erboso della strada, fra un’Audi azzurra e una Cinquecento. Due o tre cavallette, o forse cicale, saltano fuori rifugiandosi in mezzo all’erba. Aziona l’antifurto che fa lampeggiare le quattro frecce per un paio di volte. E poi prende per un braccio il ragazzino e lo conduce lungo una scalinata ricavata malamente nella roccia fra cespi di ortiche, cactus e rovi, sotto un irregolare, discontinuo pergolato di canne e stecchi intrecciati. In fondo alla scalinata c’è la baracchetta dello stabilimento e una terrazza di legno e, un paio di metri sotto, il vasto arenile, popolato da non poche persone. Il padre e il ragazzino salutano il padrone dello stabilimento (un vecchietto gagliardo che parla un dialetto ibridato di romanesco e napoletano, gesticolando molto e ogni tanto controllandosi qualcosa dentro la camicia) e si fanno assegnare cabina, ombrellone, una sdraio e un lettino. Mezz’ora dopo calcano la rena bollente e la battigia umida. Il ragazzino vorrebbe subito buttarsi, il padre prende tempo:

“Voglio prima sudare un po’. Che ne dici di una sfida a racchettoni?”

“E dai, papà, andiamo in acqua! A racchettoni dopo!”

Il mare è insolitamente pulito, sull’acqua azzurra e cristallina sfavillano i raggi quasi ortogonali del sole. Il ragazzino schizza il padre e il padre ricambia e dopo qualche istante sono entrambi bagnati fradici e allora si buttano e nuotano per qualche metro e poi si abbracciano continuando a schizzarsi festosi sotto gli occhi benevoli o distratti degli altri bagnanti. Luca affossa sotto l’acqua la testa grigia e spelacchiata del padre, poi lo ritira su per farlo respirare e di nuovo lo affoga. Nel bel mezzo di questa operazione il ragazzino è attraversato da un brivido sottopelle sentendosi strusciare sul fianco da qualcosa, ma sì, da una medusa di cui può ancora intravedere la cupola viscida muoversi quasi alla superficie dell’acqua.

“Accidenti, pa’, una medusa!”

“Sei sicuro che sia una medusa?… Ma ormai l’hai superata, stai tranquillo!”

Si sente lo stridio di qualche uccello marino, le voci dalla riva debolissime, lo sciaquio dell’acqua.

“Non era una medusa, guarda là…”

Il bambino ha già visto quello che c’era da vedere e cioè la sagoma galleggiante di una giovane donna dentro un fluttuante vestito, una nuvola di organza azzurro polvere che pare una subacquea efflorescenza. Luca caccia un urlo, il padre gli tappa la bocca con la mano.

“Zitto Luca! Ce ne andiamo, ce ne torniamo a riva, che la ritrovi qualcun altro!”

“Ma se non fosse proprio morta, se fosse solo svenuta?”

“Quella è morta!”

“Andiamo a vedere”

“Ma sei sicuro che vuoi vedere? Ma se ce ne andassimo?”

“Sì, sì, voglio vedere… – insiste Luca. – Andiamo a vedere!”

Raggiungono nuotando quella cosa, quella sfrangiata isola galleggiante. Il padre allunga le mani verso la nuvola di organza, poco dopo tiene un braccio assicurato attorno al collo magro della donna e  ne verifica la morte, tastandole a lungo il polso e cercando di non guardare, sotto la cupola bionda di lei, adagiata mollemente sul suo avambraccio, il volto gonfio, livido e grondante.

“Come è bella: sembra una fata. Che facciamo papà, la portiamo a riva?”

“Neanche per sogno!”

Così dicendo molla il fluttuante e sinuoso cadavere al suo liquido destino e torna verso la riva, seguito dal figlio che brontola.

“Bagnino, ha capito?, abbiamo visto un cadavere nell’acqua…”

“E’ sicuro che fosse un cadavere?”

“Beh, direi di sì. Ma pensateci voi, io non sono esperto- credo che sia meglio”

Poco dopo il bagnino sta nuotando vigorosamente verso il largo, mentre altri due addetti più giovani, uno dei quali arabo, provvedono al pattino.

Il cadavere viene issato nel pattino rosso di salvataggio e portato a riva. Insieme con i suoi due aiutanti, il bagnino provvede a stendere il corpo sulla battigia sotto gli occhi voraci della gente che già fa mucchio all’intorno.

Il riconoscimento da parte delle autorità avviene poco dopo: dovrebbe trattarsi di una polacca, chissà se uccisa oppure suicidatasi. Le viene steso sopra da un paio di carabinieri un sudario scuro. La gente poco a poco perde interesse, la folla si scioglie. Walter strattona il figlioletto che sembra intontito:

“Forza, non c’è più nulla da fare qui, andiamo…”

I due giocano a racchettoni sulla riva a una certa distanza dal cadavere. Ma il ragazzino gioca male, svogliatamente, a tratti si gira per vedere che ne è del cadavere e di quelle due o tre persone che ancora gli razzolano intorno. Quando lo rimuovono, nella zona dove giaceva si crea un una specie di vuoto sacro, nessuno vi si azzarda come se fosse uno spazio maledetto.

“La portano via! – dice Walter. – Dai, continuiamo a giocare!”

“No, non mi va più di giocare”

Il ragazzino raggiunge quel punto della spiaggia dov’era il corpo morto della donna, si mette in ginocchio sulla sabbia umida e fissa l’orizzonte passandosi i granelli di sabbia da una mano all’altra. Il padre si avvicina titubante, indugia qualche istante tastando coi piedi l’umidità della sabbia, e si mette anche lui seduto per terra, sulla rena morbida, umida e fresca dove era adagiato il cadavere.

“Ma secondo te, papà, l’anima di quella donna è volata in cielo?”

“Chi lo sa! Tu che ne pensi?”

“Beh, io penso che magari è passato un veliero fantasma e l’ha caricata a bordo”

“Uhm, forse”.

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