Laura Novelli
Al Kilowatt Festival di Sansepolcro

Teatro in cammino

“The Stranger” di Daniele Bartolini è una sorta di percorso urbano che si trasforma in un viaggio dentro di sé grazie ai consigli e alle provocazioni di attori e musicisti

Bisogna essere sufficientemente disposti all’idea dello spaesamento, del disorientamento spaziale ed emotivo, per affrontare l’esperienza della performance The Stranger che Daniele Bartolini – origini fiorentine ma residenza a Toronto – presenta in questi giorni al Kilowatt Festival di Sansepolcro in prima nazionale italiana. Si tratta di un urban-immersive format già ben collaudato all’estero (e sarà presto di nuovo in Canada e a Berlino) che, pensato per un solo spettatore alla volta, disegna la mappa di un percorso cittadino all’inizio oscuro e imprevedibile da affrontarsi alla ricerca – appunto – di un non meglio precisato “straniero”.

Arrivo all’appuntamento molto curiosa, direi anche leggermente ansiosa. Il buio pesto provocato da una benda sugli occhi mi riporta alla memoria certi lavori del Teatro del Lemming (ricordo un folgorante Edipo allestito al teatro Valle) e di Enrique Vargas (mi riferisco in particolare a Oracoli). Sono io che agirò, io che camminerò, io che seguirò il tracciato di un gioco sospeso tra realtà e finzione, io che scioglierò l’enigma espresso nel titolo. Mi avvisano che potrei perdermi e mi forniscono, per ogni evenienza, il numero di cellulare dello stesso Bartolini. Non so cosa immaginare. Cosa aspettarmi. E decido di non immaginare e di non aspettarmi nulla. Mi affido a quella porzione di spazio/tempo nuova, inedita, e mi lascio andare.

Una voce femminile molto suadente mi invita a camminare nella sua direzione e mi guida tra le stradine della ben nota cittadina toscana. Poi mi fa fermare. Sento la musica di un pianoforte. Devo togliermi la benda e seguirla. È in un polveroso scantinato pieno zeppo di oggetti che incontro Amedeo, giovane pianista di talento che cerca di indagare il mio animo e il mio passato sintonizzando le sue note sulla mia reazione. Amedeo è anche un simpatico prestigiatore: nasconde e fa apparire palline rosse e intanto mi spiega che ciò che cerco (o colui/colei che cerco) è qui e anche lì, vicino e lontano, questo e quello. Comincio a ragionare. Ma forse – mi dico – è presto per attivare il pensiero. Meglio seguire le indicazioni e stare a vedere. Mi raggiunge una ragazza molto sorridente, dai capelli ricci e rossi, che mi fa domande e mi fa camminare a lungo inseguendo qualche passante e poi lei stessa. Devo dirle qualcosa di lei e lei mi dice qualcosa di me. Non ci sono fronzoli, increspature psicanalitiche, parolone letterarie. Il canovaccio è semplice. Probabilmente muta col mutare degli spettatori/attori, ma non può fuoriuscire da quel registro di freschezza, curiosità, pacatezza comunicativa con cui è stato confezionato. Da questo momento in poi è un susseguirsi di incontri, azioni, sensazioni.

Paola, una donna sorda sin dalla nascita, mi aspetta al secondo piano della sua abitazione e mi racconta alcuni particolari della sua infanzia, del suo essersi sentita “straniera” tra i simili. Le sorrido. Mi regala una specie di origami di carta a forma di camicia maschile. Poi arriva una ballerina con tanto di cuffia e mini I-Pod che mi fa correre tra vicoli e piazze ballando e saltando. Ho il cuore in gola ma mi sento bene, allegra. E questo benessere continua quando, poco dopo, entro in un grande salone pieno di vernici e pennelli e, sotto la guida di un altro performer, prendo violentemente a pennellate un materasso/quadro contro cui inveisco con linee di colore acceso e brutale. Uscita da lì devo raggiungere il Museo dell’Aboca e, ancora una volta, cammino pensierosa. All’ingresso c’è un’attrice vestita in bianco e nero che in perfetto silenzio mi fa salire oltre settanta scalini e mi accompagna sulla straordinaria terrazza del palazzo dove, complice un’altra attrice anch’essa in bianco e nero, l’evento declina verso il teatro, verso il dialogo significativo di qualcos’altro; l’enigma poco a poco si scioglie.

Parliamo di scelte, di altre possibili noi stesse, di rinunce, viaggi, crocevia della vita. Capisco ciò che fino ad allora avevo solo intuito: lo straniero che vado cercando in fondo sono io. Le due interpreti vanno via e mi lasciano qualche minuto davanti a quel panorama mozzafiato. Infine arriva un’altra giovane performer che in inglese (scoprirò subito dopo essere canadese) mi invita a scendere, a tacere, a pensare. Quando siamo fuori dal museo, mi fa scegliere la mia direzione (la mia identità? La mia esistenza? Il mio viaggio?) e mi regala un piccolo cartoncino con su scritta questa frase di Céline: “Viaggiare è utile, è un esercizio per l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua forza. Va dalla vita alla morte. Tutti possono farlo. Basta chiudere gli occhi. E’ dall’altra parte della vita”.  Resto ferma a leggerlo per un bel po’. E poi torno alla base con passo lento.

Ho deciso di raccontare quest’esperienza piuttosto che recensirla perché credo che si commenti da sola. The Stranger coniuga intelligentemente tante direttrici diverse del teatro di ricerca contemporaneo per esplorare la nostra stessa capacità di esplorare il mondo e noi stessi. Dunque non posso che concludere con una nota di merito a Bartolini (nominato di recente per il Telus New Corner Artist Award e vincitore del premio RBC Art Access Fund della città di Toronto), ai suoi numerosi collaboratori, al festival Kilowatt che lo produce, e ovviamente ai giovani performers che a Sansepolcro hanno reso possibile l’iniziativa: Alessia Ferri, Marco Mercati, Paola Mastrapasqua, Tina Milanesi, Laura Senesi, Veronica Ducci, Amedeo Testerini.

Si replica fino a domenica 23 luglio.

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