Pasquale Di Palmo
La voce del poeta: Maurizio Cucchi

Storie senza trama

Con il distacco di un semplice cronista che si avventura sul luogo di una tragedia, la poetica dell’autore milanese registra le suggestioni del quotidiano e le trasforma in metafisica. Superando ogni retorica e facile rassicurazione…

La recente pubblicazione delle Poesie (1963-2015) negli Oscar Mondadori (394 pagine, 13 euro), curata in maniera ragguardevole da Alberto Bertoni, ci dà l’opportunità di misurarci con una delle più significative opere poetiche dagli anni Settanta in poi, in cui la forte componente realistica – ma si tratta un realismo di tipo non naturalistico, «aperto ai meandri dell’interiorità», come avverte lo stesso Bertoni nell’introduzione – si aggancia alle vicissitudini esistenziali e a suggestioni ricavate da ambiti diversi, creando una sorta di maschera biografica che si riverbera attraverso una fantasmagoria di personaggi grandi e piccoli. Un vero e proprio campionario dell’umanità, spesso ricavato dalla cronaca o da ascendenze di tipo letterario, in cui è quanto mai presente il retaggio culturale e topografico di una Milano che a tratti ricorda certi scorci sironiani (non è un caso che Raboni, a proposito dell’esordio di Cucchi, parlasse di «espressionismo lombardo»).

Queste presenze allucinate, queste «fisionomie lontane» sembrano materializzarsi, con «i gesti del crepacuore», nelle situazioni più ordinarie e comuni, stabilendo un inverosimile corpo a corpo con la figura dell’autore che rimane tuttavia assente, come se il compito prefisso fosse quello di registrare tali storie «senza un’ombra / di trama» con il distacco di un semplice cronista che si avventura, riluttante, sul luogo di una tragedia. Gli eventi si svolgono «sull’orlo del Maelström», svelando soltanto un pugno di reperti, di «rimasugli sottili» che si «squarciano / in un sogno rosso e in un profilo».

cop Cucchi

Giorgio Ficara osservava: «Cucchi, con il suo cadenzato passo feriale si è alfine incamminato nella metafisica: disintegrando ogni retorica […] e negando tutte le oppugnabili rassicurazioni della psiche, riscontra su quella via la forma di ciò che è o fu uomo o donna». Il dettato si rastrema sempre più, scarnificandosi a tratti fino ad assumere un tenore polisemico che si spinge fino alle propaggini dell’ultima produzione, in cui persino le Macchine movimento terra, come si intitola una sezione della raccolta Malaspina, acquistano una dimensione – nel loro trasognato realismo – quasi simbolica. Dalla raccolta d’esordio Il disperso (1976), si approda a Malaspina (2013), passando attraverso Le meraviglie dell’acqua (1980), Donna del gioco (1987), Poesia della fonte (1993), L’ultimo viaggio di Glenn (1999), Per un secondo o un secolo (2003), Jeanne d’Arc e il suo doppio (2008), Vite pulviscolari (2009). Una sezione finale raccoglie testi inediti o rari.

Nella sua esauriente introduzione Alberto Bertoni, a proposito delle sue raccolte, fa riferimento alla figura del flâneur, chiamando in causa Baudelaire e, implicitamente, Walter Benjamin. Qual è il rapporto con la Milano descritta nei suoi primi libri e con quella attuale?
Milano è sempre stato il mio habitat, ma se da giovane neanche me ne accorgevo, e in fondo non provavo per la città nessun particolare sentimento, oggi do maggior valore a origini e radici, e dunque, restando il mio habitat perché così è sempre stato, Milano è per me il luogo che mi corrisponde, forse perché ognuno porta in sé qualcosa o molto del proprio territorio, che ne abbia consapevolezza o meno, che lo accetti o cerchi di rifiutarlo. Io l’ho accettato tranquillamente. Anzi, passando il tempo persino con amore e gratitudine.

Da Poesia della fonte in poi il suo dettato è andato maggiormente illimpidendosi, pur rimanendo fedele alle tematiche che hanno contrassegnato le sue precedenti raccolte. Qualcosa di analogo è avvenuto al suo amico e conterraneo Milo De Angelis. Come è avvenuto questo passaggio?
In modo insieme consapevole e necessario, e del tutto naturale. Il mondo cambia, dentro il mondo stesso cambiamo noi. E se cambiamo noi cambia anche il nostro linguaggio. Se questo non avviene, c’è qualcosa che non va…

Bertoni cita il titolo di un suo romanzo del 2011 La maschera ritratto a proposito delle molte figure di cui è disseminata la sua poetica: da Glenn a Jeanne d’Arc, da Gilles de Rais a Rutebeuf, dal Malone di Beckett al Console di Sotto il vulcano di Lowry. «Innumerevoli sono i sosia / ovunque sparsi e si susseguono / e mi confondono, colpevoli, / in quelle misere tracce scollate / di identità, la mia, nel mondo». Si possono ricondurre questi versi tratti da Malaspina a quella sorta di disgregazione della personalità, così presente nelle sue raccolte?
Non ho mai creduto nell’importanza dell’io, né tanto meno nella sua unicità. Mi guardo attorno e vedo un’infinità di volti, di figure con le quali io mi confondo, sapendo bene che la nostra identità individuale è ben poca cosa. Chi dice io nelle mie poesie è sempre e comunque un personaggio, e le figure della storia e della letteratura che mi hanno interessato sono tante, e se me ne sono servito (meno di quanto mi sarebbe piaciuto) è stato per farne, tra tanti, altri personaggi. Ma senza mai fissarmi in uno o in un altro, ma cercando di sfumarne ogni volta le fisionomie in ulteriori fisionomie, in procedimenti come quelli del morphing.

Nella sua poesia è molto presente il retaggio culturale di alcuni grandi autori novecenteschi – da Sereni a Raboni, da Risi a Giudici – che hanno sostenuto fin dagli esordi la sua opera e che hanno operato a Milano. Non ritiene che con la loro scomparsa sia definitivamente finita un’epoca?
Potrei dire di sì, ma dovrei anche aggiungere che è la storia a essere cambiata e che in qualche modo ho avuto la fortuna di vivere parte notevole della mia vita quando ancora era, diciamo così, normale, la presenza di maestri come loro.

Alberto Bertoni, riallacciandosi alla sua produzione narrativa, parla dell’opera omnia poetica confluita nel recente Oscar mondadoriano come di un Canzoniere/Romanzo «in cui ogni parte si tiene, si riecheggia, si motiva». Quale rapporto c’è tra i suoi romanzi e le sue poesie?
Un rapporto, tranne forse per L’indifferenza dell’assassino, molto stretto. Il primo romanzo, Il male è nelle cose, l’avevo in realtà scritto da ragazzo, a vent’anni, quando ancora non avevo deciso quale via privilegiare, e la sensibilità morbosa del protagonista è presente anche in molte poesie che ho scritto. La maschera ritratto è poi anche un progetto di superamento dei generi, in una forma di prosa economica per brevi capitoli che ritengo molto vicina alla poesia e con le due tematiche di ricerca che sono presenti, oltre che in quel romanzo, anche in alcuni dei miei testi poetici.

 Pensa sia ancora valida la definizione di «linea lombarda», coniata da Luciano Anceschi, con la quale si tende a circoscrivere esperienze letterarie differenti, ma nate sotto il segno di una comune intonazione etica e civile che si riallaccia, nel suo caso, alla lezione di Porta e di Dossi?
Quella definizione non mi è mai piaciuta e quando è stata creata, più di mezzo secolo fa, si riferiva a una situazione ancora molto ma molto particolare e minoritaria. Non c’è una “linea” lombarda in quel senso, ma c’è una grande tradizione lombarda o milanese (preferisco) che ha radici remote e che ha sempre portato alla coesistenza di grande tensione morale e di invenzione nel linguaggio e nella forma.

 Oltre alla sua attività di poeta, traduttore e narratore è noto il suo impegno sul versante critico, sfociato nella pubblicazione di importanti contributi tra cui l’antologia, curata insieme a Stefano Giovanardi, I poeti italiani del secondo Novecento. Cosa pensa dell’attuale situazione poetica italiana?
Credo che ci sia sempre ricchezza nella nostra poesia, che ci siano molte voci, per fortuna molto varie. O forse sono solo un ottimista. In ogni caso mi ha colpito il fiorire di una nuova presenza attiva dei giovani, che dimostrano la loro piena fiducia nella poesia, a dispetto dei tempi. In loro c’è il bisogno forte di raccontare ed esprimere in versi il loro sentimento dell’esistere, perché sanno che è ancora e comunque lo strumento più idoneo ed efficace. Almeno per chi voglia andare a fondo e leggere e interpretare la complessità, anziché restare galleggianti in superficie come la società del nostro tempo vorrebbe ridurci a fare.

***

Cucchi

’53

L’uomo era ancora giovane e indossava

un soprabito grigio molto fine. Teneva la mano di un bambino

silenzioso e felice. Il campo era la quiete e l’avventura,

c’erano il kamikaze,

il Nacka, l’apolide e Veleno.

Era la primavera del ’53,

l’inizio della mia memoria.

Luigi Cucchi

era l’immenso orgoglio del mio cuore,

ma forse lui non lo sapeva.

Maurizio Cucchi
(Da Poesia della fonte)

Facebooktwitterlinkedin