Vincenzo Nuzzo
Cartolina da Lisbona

Dom Sebastião, l’eretico

Illazioni a proposito di Dom Sebastião, nipote di Carlo V, ultimo monarca degli splendori del Portogallo, propugnatore di un'utopia mai pienamente tramontata: quella della felicità

Chi era l’Infante Dom Sebastião, asburgo di sangue e nipote di Carlos V, regnante sul Portogallo negli ultimi anni del suo splendore? Le risposte (di gente comune e storici) sono così tante e così diverse che con questa figura doveva proprio nascere un mito [deduciamo tutto ciò da tre opere ‒ M.A. Lima Cruz, Dom Sebastião, Temas Debates 2009 (DS); Fernando Pessoa, Pagine esoteriche, Adephi 2011 (PE); Fernando Pessoa, Mensagem, Assirio & Alvim 1997 (ME)]. Mito accresciuto poi nella sua probabilità da quattro fatali luoghi dell’esistenza del re: il castello lisboeta di São Jorge, il cabo São Vicente, il Covento di Cristo a Tomar, e le sabbie roventi di Alcácer Quibir, in Marocco. Dove la sua vita si spense combattendo e svanì nel nulla il suo stesso corpo.

Prima che però di qui si giunga al mito del «Quinto Império» nella sua pienezza, occorrono le figure di tre poeti visionari ‒  Bandarra [misterioso «profeta ciabattino» dell’Ordine di Cristo  (PE, p. 154)], Antonio Vieira [fondatore del movimento gesuita in Brasile] , e Fernando Pessoa. Ma intanto, presso il popolo, il mito si costituì non appena la notizie dalla morte e scomparsa del giovane re raggiunse Lisbona (DS, p. 335-345). Infatti speravano tutti e nello stesso tempo nessuno. Non speravamo né credevano i così pragmatici  saggi e potenti del regno. Sperava invece si il popolo. Ma meglio sarebbe parlare di una sorta di diffusa, occulta e misterica, consapevolezza insieme poetico-epica, religiosa e mitica. È poi l’originaria ispirazione e vocazione politica del paese e (per così dire) della sua mista razza. Qualcosa di profondo ma sempre pronto ad erompere. In succedeoggi ce ne ha parlato il Prof. Real come una ancora attuale «transcendência sagrada»  ‒ il nucleo stesso  della propensione lusa al mito storico-epico (Camões). Del resto si entri in una qualunque chiesa lisboeta e subito si avvertirà la straordinaria densità concentrata della fede di questo popolo. Dunque una profondità nucleare che tutto di sé impregna ‒ come ciò che da noi potrebbe promanare dal fuoco sempre vivo di un eterno Tempio di Vesta, oppure dal sacello in cui riposano le spoglie di Francesco nell’ipogeo della Basilica inferiore di Assisi.

Nacque così il mito di un giovane Re che aveva fallito storicamente nel portare il Portogallo al compimento della sua missione storico-spirituale. Ma che non avrebbe fallito iper-storicamente. Tornato un giorno tra i vivi, egli avrebbe portato la nazione al compimento della sua misteriosa missione. Per questo per il popolo «O Desejado» («Il Desiderato») e per i saggi e poeti visionari «O Encoberto». Egli emanazione del profondo nucleo, venne così alla luce divenendo storia e vita vissuta. Sebbene solo  per il breve intervallo di visibilità sempre di tanto in tanto concesso alle eterne Utopie.

Lasciando dunque da parte le sempre connesse brutte storie di intolleranza razziale e religiosa (ed anche di troppo parziale teologia confessionale), comunque nell’anima e nel progetto di Dom Sebastião l’Utopia assunse la forma ed il volto di strenua purezza che ad essa più propriamente appartiene.  Nessuna dietrologia per poterla vedere. E dunque saper porre tra parentesi quelli che sono comunque fatti incontestabili o almeno molto probabili. Il dibattito si svolge proprio intorno a questo. Chi fu davvero Dom Sebastião? Uno psicotico delirante? Un malato di tbc o di lues cerebrale? Un ragazzino socialmente disturbato e misogino ‒ forse vittima di abuso sessuale, e forse tendenzialmente omosessuale ‒ posto incautamente in posizione di re? Un fanatico religioso ammalato di odio anti-islamico? Un irresponsabile sognatore senza il minimo senso della realtà? Un re, statista e supremo capo militare privo del sia pur minimo senso politico? La costante opposizione alla sua politica fu ispirata proprio da tali perplessità (DS). In primis da parte della nonna e reggente di fatto, Dona Catarina, sorella di Carlos V.

Ma Dom Sebastião continuò imperterrito a sognare. E lo fece sempre di concerto con l’ispirazione profonda della sua nazione e del suo popolo. Così il sogno utopico e visionario andò di pari passo con simili sue propensioni. Un ascetismo estremo e monacale ‒  invece che nel magnifico palazzo manuelino di Terreiro di Paço, egli visse sempre nell’austero Castello di São Jorge, dove beveva da una rozza tazza (da cui non volle mai separarsi), e di fatto non conobbe donna (a parte la romantica improbabile leggenda di Almada). Una fervidissima fede religiosa venata di esoterismo che intrecciò strettamente la sua vicenda politica a quella dei resti dell’Ordine Templare. Un’attitudine contemplativa assolutamente divorante. In preda ad essa, egli sedeva al Cabo São Vicente, il «Sacro Promontório» (luogo misterico, emblematico per la storia del corvo e del vascello, simboli di Lisbona), contemplando l’Oceano ai piedi del «Mosteirinho»,  nel mentre lasciava che suonassero la musica che amava. Sogno utopico e visionario fu anche il suo sforzo continuo di correggere i corrotti costumi politici e commerciali del paese, introducendo in essi un purissimo concetto di imparziale Giustizia Sacra. Anche questo atto pochissimo pragmatico fino al fanatismo. Ma proprio per questo estremamente puro. Insomma nulla di tutto questo era destinato a trasformarsi davvero in storia. Meno che mai il culmine stesso dei suoi sogni (DS, p. 309-345), la spedizione che trionfalmente mosse dal Terreiro do Paço il 24 di Giugno del 1578. Con truppe non solo portoghesi ma anche tedesche, spagnole e italiane (incluso un nutrito gruppo di napoletani comandati dal capitano Francisco de Aldana). Il 4 di Agosto si attaccò battaglia. Poi fu il disastro. Il più grande disastro militare della storia portoghese.

Ebbene, dopo i sebastianisti storici (Bandarra e Vieira), Pessoa riconobbe in Dom Sebastião ciò che egli davvero dovette essere, ossia il prototipo umano destinato per nascita a penetrare da parte a parte la stessa Utopia da lui stesso intuita e rappresentata. Sfuggendo così alla storia e trapassando direttamente nell’Eternità. Di fronte alla quale nulla contavano i luoghi della fine ‒ «o areal e a morte e a desventura” (ME, III, I, 1-5). Anzi  la «hora adversa» fu per lui lo stesso supremo dono divino, l’ora decisiva in cui finalmente si desvela il misterioso chi sei? di ognuno di noi. Ed è così a tutto questo che si intreccia un sogno di universalità che è il contrario stesso del «triste» e mero vivere storico. Quello di chi «vive porqué a vida dura». Molto stoico e molto nietzschiano, qui il nostro Pessoa. Ma soprattutto è proprio questo «O Quinto Império». E su tutto il paradigma sommo do «Encoberto», e cioè un Cristo sovrapposto ad una Croce che è «Rosa» (PE, IV, p. 153-173). Il Quinto Império non è altro che il gesuitico «Impero dello Spirito Santo» (PE, p. 167).

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