Loretto Rafanelli
“Osare dire” di Cesare Viviani

Dei dolori degli altri

Nella sua ultima raccolta il poeta senese sussurra i modi per raggiungere una luminosa meta invisibile, consegnandoci alla nostra fragilità, alla dignità del cuore incrinato, dedicando attenzione piena alla vita, alla comprensione dell’altro. Non un’indicazione religiosa, ma spirituale…

Osare dire (Einaudi) è il nuovo libro di poesia di Cesare Viviani. Esce a distanza di quattro anni dalla pubblicazione di Infinita fine e ancora una volta il poeta senese si inoltra in nuovi spazi, come peraltro ci ha abituato, tanto da poter dire che mai si sia fermato allo stesso libro. Ma quali sono queste nuove linee poetiche, dove rinnova il poeta la sua rincorsa creative? La sensazione che ci giunge è che si tratti di un ulteriore, diretto avvicinamento ai fatti reali e al conseguente recepire e “sentire” i passi dolorosi e incerti degli uomini in questo stanco tempo, con una sensibilità particolare verso ciò che più urge, condiziona e annichilisce, verso ciò che strattona le fondamenta del vivere e del morire. Viviani opta ancora per poesie brevi, quasi dei frammenti, caratterizzate da un dire “semplice”, colloquiale, con una asperità aforistica meno presente, seppure l’aforisma permanga e sia un aspetto fondante di questa poesia. Una versificazione che a volte è situata sulla soglia di una sottile ironia, più spesso è attraversata da una amara tristezza, per non saper riconoscere «se quel che abbiamo avuto/ ci è stato dato,/ se in tutta la vita/ abbiamo conquistato/ un filo d’erba, un frutto, un sorriso».

osare_direPoesie protese al dialogo continuo con le tante voci e i fatti del mondo, coi temi decisivi che ci incalzano, quelli delle contraddizioni sociali, dell’agire degli uomini, del divino, della morte, dei sentimenti, del tempo che se ne va («È passata la vita,/ e non ce ne siamo accorti») e tanto altro. Temi che vengono affrontati con una lievità sorprendente, con una dolcezza parca e attenta, seppure sia feroce la condanna verso il senso del non-valore che ci affligge e sulla relativa utilità senza morale che ne consegue, con la invadente idolatria del denaro e del successo («Tu vedi come è vicina la gloria/ alla stupideria,/ la storia declamata, invocata/ proprio mentre si esce incontro alla prima/ raffica di mitra.»). Tutto ciò che ci consegna alla voragine dove siamo collocati.

Un annotare che ci parla delle infinite tensioni che ci sovrastano, ma dove pure emergono gli indizi che potrebbero permettere di aprire uno squarcio di serenità, seppure Viviani non si ponga nell’ottica del maestro o del profeta, quindi il suo dire si avverte in verità come un sussurrare, più che costituire l’indicazione della via perfetta. È il richiamo a una invisibile meta che forse non sarebbe molto lontana da raggiungere, una invisibilità da intendersi non nel senso di un aprirsi a suggestioni segrete e magiche, ma di consegnarci ai nostri limiti, alla nostra fragilità e a una dignità che deve specchiarsi nel cuore incrinato e dolce dei nostri anni, così da raggiungere un briciolo di luce, quindi ripararsi dal giogo di una vita che ci svuota. Quella serenità che gli viene richiesta continuamente nella sua attività di psicanalista e che gli risulta arduo garantire perché tutto ciò è un traguardo che nessuno vuol vedere.

Quella di Viviani è una parola che si porge come l’esigenza ultima prima della inevitabile dismisura, ingannevole e fallimentare. Non ci sono parole segrete per dare senso alla personale traccia, è più opportuno ascoltare ciò che ci circonda («Più dell’identità personale conta/lo sferragliare del tram,/ le voci dei passanti,/ i rumori dei lavori/ in corso»), rimettendoci ai cicli elementari della natura («Raccontala, fiore, l’età che ti ha portato/ sul trono,/ fai sbalordire i vicini, più giovani di te,/ che sentono le voci/ da quando sono nati./ I tuo petali essenziali e sensibili/ alla stanchezza»), con la sua necessaria identità («finché l’uomo non si fa natura/ resta la paura») e accogliere il gorgo degli anni, non illudersi neppure sul senso di potenza affidato alla parola o ai grandi teoremi, ma riprendendo una equilibrata interpretazione della vita.

vivianiTutto ciò non sacrifica lo slancio verso l’assoluto, che era alla base di Infinita fine. A ben vedere come non mai qui il linguaggio dello spirito, il linguaggio mistico si avverte e attraversa l’intera raccolta, proprio là dove si racconta di una attenzione piena alla vita, alla carità, alla comprensione dell’altro, anche diminuendo se stessi («Dei dolori degli altri, dei tramonti,/ dei tempi bui dove appare chiara/ l’impotenza nelle vicende/ hai colmato la mente/ per sottrarre spazio al tuo/acutissimo dolore»), e così convivere con i conflitti, e vivere pure il senso di misericordia, tanto richiamato da Papa Francesco. Chiaro non è una indicazione religiosa quella di Viviani, ma spirituale sì, almeno se ciò può essere collegato a una parola che non si cela dietro a vantaggi, ma si innerva solo coll’alto senso di rispetto e di responsabilità verso l’umanità e il mondo, che dovrebbero essere anche i connotati della poesia, che non deve avere il tratto della reciprocità, ma solo l’atto del dono, della carità, della compassione.

Viviani cerca risposte che non possono giungere, sapendo che tutto è sospeso in una interrogazione totale dove ogni cosa finisce per non finire mai. Ma pure è bene indirizzarci a salvaguardare ciò che non possiamo collocare o intuire del prima e del dopo di noi, nonostante vi sia lo sgomento e il dolore per l’impossibilità di dare un volto al proprio destino. Come nelle parole del padre del poeta (ma che in verità si può pensare che siano le domande che il poeta si fa e fa, in un confronto col senso del mistero che ci avvolge): «“Dove andranno a finire queste cose/ che conservo da sempre nel mio studio”,/ confidava mio padre, come a dirmi:/ e io dove andrò,/ dopo avere per una vita intera/ calpestato queste pietre, queste vie antiche,/ ma questo non lo diceva,/ pensava se poteva esserci/ una via ulteriore.»

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