Alberto Fraccacreta
L'elzeviro secco

Nazionale dolorosa

Nei campionati di calcio partiamo sempre convinti della sconfitta: «la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi». Più che tifo, uno condizione dello spirito

Sono iniziati gli Europei. Noi, come al solito, partiamo in svantaggio. Nessuno crede nell’impresa: «È una brutta Italia», anzi «è una pessima Italia». «Si mette male», «gol degli avversari al primo minuto del primo tempo della prima partita», «i nostri migliori sono infortunati». «Dovremo fare per forza quel tal risultato per passare il turno», «la qualificazione è legata a un filo», «c’è aria di biscotto ai nostri danni». «Affronteremo la squadra di casa», «quell’arbitro non ci vede di buon occhio», «hanno segnato in fuorigioco».

Quante volte ho sentito queste frasi. Non ho dati precisi alla mano, ma basta, credo, una memoria sofferente, sanguinante. La nostra è una Nazionale sfortunata: quando entra in campo, reca in sé qualcosa di tragico, di ostile sino al midollo. Non va mai nulla per il verso giusto. Ricalchiamo tutti i possibili passi falsi. Domina la stortura. Una forza cieca si abbatte, come un ciclone, sul capo scoperto della squadra. La nostra è una Nazionale dolorosa, ed è per questo che la si ama di più. Se gioca bene, perde. Se vince, rischi tu di perdere qualche anno di vita.

Ciò che contraddistingue gli Azzurri è l’elevato senso d’illusione, la cosiddetta “sorte beffarda”: l’unico golden gol della storia l’abbiamo preso noi, proprio agli Europei (del 2000 in Belgio e Olanda), dopo che il serafico Toldo, in semifinale, aveva parato agli Orange – palesemente favoreggiati da un arbitraggio molesto – un numero trascendente di rigori. Dopo che in finale eravamo passati in vantaggio con un’azione al cardiopalma: tacco di Totti, cross grandioso di Pessotto, staccata al volo di Delvecchio. Il povero Zoff, a causa di un guizzo del neoentrato Wiltord e di un tiro errato di Trezeguet finito rocambolescamente in rete, aveva lasciato baracca e burattini con la consueta signorilità.

Agli ultimi Europei abbiamo subìto lo strapotere spagnolo, facendo una magra figura all’ultima partita. Avevamo domato (stranamente) le Furie Rosse nel girone, ma in finale eravamo a pezzi. Il solito Iniesta – al quale non capisco perché non gli sia stato assegnato un Pallone d’Oro – sgambettava a briglia sciolta. È finita con i nostri in ginocchio. Esemplare fu il commento, a metà gara, di un presago Marco Civoli: «Manca l’uomo», quasi a voler rimarcare il contatto ultraterreno che, in queste occasioni, sembra ci soverchi.

Quando non siamo vittime di clamorose sviste arbitrali, che fanno sbuffare il bar sport con il classico e inquisitorio «non abbiamo peso in campo internazionale», il commissario tecnico sbaglia chiaramente la formazione o il centravanti divora un gol incredibile. Qui parte la fanfara: «La facevo meglio io la formazione» o «lo segnavo pure io quel gol». L’Italia dei Comuni risorge. Ma anche, magicamente, si annulla: in una settimana: «Guarda quello che scarso», «un fenomeno assoluto». Se durante l’anno gioca nella Juventus, «fa pena», ma quando gioca in Nazionale, «straordinario».

Di qualunque campionato internazionale di calcio si parli, abbiamo comunque una solida certezza: battiamo la Germania. Poi, siamo anche in grado di perdere con la delegazione del Trinidad & Tobago.

La cosa bella, direi meravigliosa, è proprio questo senso atavico di sconfitta, iniettato nel nostro DNA come una sventura, che ci pervade da capo a piede: partiamo sconfitti, abbiamo già perso comunque vada. Anche con la Coppa alzata siamo quelli che hanno sofferto, quelli che hanno dovuto risalire la china con estrema fatica, a seguito di mille e mille prove, rischiando tutto, compromettendo tutto, sempre sull’orlo di un disastro, fino all’ultimo secondo. Siamo i “solcati”, i “navigati”,  «con il piede straniero sopra il cuore», mai dominatori, sempre dominati. E in questa terribile fatalità vedo un grande onore: per via di un contraltare miracoloso, da secoli siamo oggetto di attenzione e di desiderio, come una bella donna che passeggia la sera lungo le vie illuminate del continente e ha addosso gli occhi di tutta l’Europa. Donna ferita che l’Europa non avrà mai, a causa della sua leggiadria e ineffabilità.

Non sarei italiano, se nella vita non mi sentissi in svantaggio, con due o tre gol annullati, qualche rigore negato. In qualsiasi situazione mi imbatta, l’identità di italiano si manifesta con maggiore potenza quando le circostanze sono avverse e ogni cosa deve essere ribaltata in “zona Cesarini”. Una vita in risalita. È lì che nasce la proverbiale arte del sapersela sbrigare con estro. (C’è da dire che l’estro talvolta assume una connotazione negativa, ma su questo punto è meglio tacere). Appartiene alla nostra coscienza storica, formatasi nel medioevo tra dominazioni e vassallaggio d’amore. Italia di Stati e staterelli sempre in lotta fra di loro, ma capaci di battere chiunque se coalizzati a dovere. «Serva Italia di dolore ostello» di Dante, prima divisa in Guelfi e Ghibellini, poi in Guelfi bianchi e Guelfi neri. Oggi in bianconeri, nerazzurri e rossoneri. Italia del genio e dello Stilnovo, innamorata, amata, protesa a cogliere l’incanto del creato. Italia rinascimentale, sempre caos, sempre con la testa per aria. Ovunque bellezza.

È un destino dell’esistenza, e in particolar modo un destino italiano, quello di partire che già si perde, già ci si sente perduti, «la scintilla che dice tutto comincia quando tutto pare incarbonirsi», mentre tutto sembra contro, «in direzione ostinata e contraria», e ciò che rimane altro non è che una spettacolare rimonta.

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