Giuseppe Grattacaso
A cento anni dalla prima edizione

C’era una volta il Porto Sepolto

Ancora una volta Leone Piccioni dimostra che la letteratura si può raccontare. Lo fa narrando in un nuovo saggio, rapido e intenso, la fascinazione, l'incanto, la storia de “Il Porto Sepolto” di Ungaretti, la raccolta poetica che ha cambiato la poesia in Italia

L’Europa e tanti dei suoi intellettuali e scrittori sono sconvolti dalle vicende drammatiche del primo conflitto mondiale, quando la poesia italiana subisce lo scossone che ne cambierà per sempre le sorti, destinandola definitivamente al nuovo secolo. Nel 1916, grazie all’intervento di un ufficiale, anch’egli poeta, conosciuto al fronte, quel «gentile Ettore Serra» a cui è dedicata la lirica che chiude lo smilzo volumetto, Giuseppe Ungaretti pubblica presso un editore di Udine Il Porto Sepolto: sono solo 80 copie, che contribuiranno però, come nessun’altra raccolta fino ad allora composta, a svecchiare la poesia italiana, privandola della patina retorica che ne ricopriva spesso le opere, facendole respirare un’aria di cambiamento e novità, proveniente in particolare da oltralpe.

Ungaretti, come tanti altri letterati e artisti, aveva aderito con entusiasmo all’appello della Patria e come volontario si era aggregato alle truppe dell’esercito italiano. In Italia in effetti non era nato e non aveva mai vissuto. Era solo transitato, dopo l’approdo a Brindisi, proveniente dalla natia Alessandria d’Egitto, per quelle terre di cui erano pieni i racconti di sua madre e degli italiani conosciuti in Africa. Aveva soggiornato brevemente a Roma, e più a lungo a Firenze e a Milano. Ma l’Italia era stata solo la tappa per arrivare a Parigi, dove non avrebbe studiato giurisprudenza alla Sorbona, come aveva promesso a sua madre, ma si sarebbe piuttosto interessato alle lezioni di Bergson e ai corsi universitari di letteratura, e più ancora avrebbe frequentato i caffè di Montmartre e del Quartiere Latino per discutere con Guillaume Apollinaire, innanzitutto, e con la schiera di artisti e di poeti, molti dei quali italiani, Modigliani e Soffici su tutti, che si raccoglieva intorno all’autore di Calligrames.

A quel primo gruppo di poesie, scritte su foglietti di fortuna, sui pacchetti di sigarette, sulle cartoline, come ebbe a raccontare in seguito lo stesso Ungaretti, se ne aggiunsero poi delle altre, mentre le liriche che formavano la prima edizione vennero in parte riviste e corrette, o addirittura eliminate, fino a formare una nuova raccolta, che prenderà il nome di Allegria di naufragi nell’edizione del 1919 e poi, nel 1931, di L’allegria.

Piccioni e UngarettiLeone Piccioni, che fu allievo e sodale di Ungaretti a partire dal 1945, frequentandone la casa e raccogliendo i suoi insegnamenti e le sue confidenze, e che si interesserà lungamente, da critico letterario, dell’opera ungarettiana, a cent’anni dalla prima edizione de Il Porto Sepolto conferma oggi fedeltà e attaccamento all’amico e maestro con l’agile volumetto Ungaretti e il Porto Sepolto, pubblicato dalle edizioni di Succedeoggi, la rivista online che ospita questo articolo. (64 pagine in copie numerate acquistabili su questo sito – cliccando nella colonna di destra su “I libri di Succedeoggi” – e presso alcune librerie segnalate, ndr).

Superata la soglia dei novanta anni, Leone Piccioni ci mostra ancora una volta, in questo rapido e vivace saggio, che è possibile raccontare la letteratura. È possibile cioè dire la fascinazione, l’incanto, la forza espressiva che nasce dall’opera, trasformando in narrazione la lettura e il proprio rapporto con il testo, costruendo un dettato fluido e piano, che interroga e spinge alla riflessione, senza mai risultare faticoso. La letteratura può essere raccontata senza perdere di vista la profondità e i contenuti dell’opera, ma anzi pescando proprio nelle zone più fonde, rendendole accessibili anche al lettore meno esperto. Questo è un libro che dovrebbe essere utilizzato nelle scuole, offerto ai giovani, per renderli partecipi di un momento particolare della vicenda italiana ed europea, quando la letteratura era ancora incontro e confronto, per spiegare loro chi è stato, nei suoi anni giovanili, uno dei poeti più grandi del nostro Novecento, quello forse che ha saputo vedere prima degli altri le caratteristiche del secolo ventesimo, con le sue infinite possibilità e le enormi contraddizioni.

Piccioni, analizzando le poesie de Il Porto Sepolto, attingendo ai suoi ricordi personali e alle parole del poeta, in particolare contenute in una lunga intervista concessa allo scrittore e critico letterario franco algerino Jean Amrouche e mandata in onda da Radio France, ricostruisce la vicenda esistenziale e culturale di Ungaretti, a partire dagli anni dell’infanzia e dell’adolescenza in Egitto, fino alle vicende che lo portano a partecipare alla guerra, prima in maniera convinta, poi sempre con maggiore sofferenza e crescente dolore. Sono insomma i luoghi e le situazioni che il poeta riassume nei versi de I fiumi, dei quali appunto parla come di una sua vera carta d’identità culturale: nell’acqua dell’Isonzo, il fiume che attraversa il Carso, teatro della guerra, Ungaretti ritrova la presenza degli altri fiumi che hanno contribuito a formare la sua personalità, il Nilo naturalmente, che lo ha visto «nascere e crescere / e ardere di inconsapevolezza», la Senna, nel cui «torbido» il poeta si è «rimescolato» e «riconosciuto», e prima ancora il Serchio, nella lucchesia, nel quale ricercare le sue origini familiari e dove hanno attinto varie generazioni «di gente mia campagnola / e mio padre e mia madre».

Gli anni della guerra, quelli della composizione delle poesie de Il Porto Sepolto, sono terribili per il poeta, ma anche in qualche modo rappresentano, come ricorda Piccioni, la porta d’accesso ai valori più profondi della sua poesia. Dirà Ungaretti in seguito: «Il Carso è la società. È una società tragica, una società di guerra, ma è una società umana… L’incontro con gli altri uomini per me avviene sul Carso, avviene nel momento del sentimento di umiltà, di disperazione, di onore e di necessità di aiuto, di comunanza nella sofferenza».

foto porto sepoltoNel ripercorrere le liriche del primo libro di Ungaretti, a cominciare dai versi dedicati all’amico suicida Moammed Sceab, con il quale il poeta abitò a Parigi in una pensione di rue des Carmes, «appassito vicolo in discesa», Leone Piccioni cerca le ragioni di quella poesia, i motivi della sua forza e li ritrova in parte proprio nell’ultimo testo già ricordato, nelle parole di Commiato rivolte ad Ettore Serra: «… poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / è la limpida meraviglia / di un delirante fermento // Quando io trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso». Scrive Piccioni: «Inutile cercare invano pretesti per l’ispirazione poetica: c’è solo da guardare le cose del mondo, dell’umanità, della propria vita affidandosi alla novità e alla purezza di una ispirazione che riguarda molto da vicino tutti i viventi. Una parola non logorata dall’uso improprio, ma trovata con fatica e senza illusioni. Un “delirante fermento” è necessario».

Si tratta a ben guardare di una lezione di poetica di grande attualità. Così come moderno è l’approccio analitico di Leone Piccioni, che gli permette di tornare a parlare, con rinnovata freschezza, dell’opera di Ungaretti. In tale modo di procedere la profondità con cui si muove il critico letterario non è mai separata dalla vivacità della parola del giornalista. Sono le stesse caratteristiche che gli permisero, ormai decenni fa, quando ebbe ruoli significativi nella Rai, di inventare un modo nuovo di fare divulgazione culturale, dando vita, insieme ad altri intellettuali, a quella mitica e mai dimenticata trasmissione culturale che fu L’Approdo.

 

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