Roberto Mussapi
Every beat of my heart, la poesia

Mario e il Tuffatore

Un tuffo. Verso le acque dell’ignoto e dell’origine. A quarant’anni dalla morte, Roberto Mussapi con i suoi versi rende omaggio a Mario Napoli, l’archeologo che scoprì il capolavoro di Paestum

Il fondo è bianco, evoca l’infinito, due alberelli definiscono la scena: un giovane si tuffa da una costruzione di blocchi squadrati, verso uno specchio d’acqua. Il blocco solido da cui si stacca è un trampolino, luogo di confine tra terra e acqua, sospeso nell’aria: consente di immergersi con un balzo. Lo specchio d’acqua si distende tra l’albero di sinistra e il trampolino, lì sta per entrare il giovane tuffatore, reso dal pittore con linea agilissima e nervosa. È una delle grandi opere pittoriche di tutti i tempi, forse la prima pittura greca non vascolare giunta fino a noi, risalente a autore di Grecia o Magna Grecia, datata tra il 480 e il 470 avanti Cristo. È la Tomba del tuffatore, così la battezzò l’uomo che la scoprì, nel 1968, il grande archeologo Mario Napoli.
Di cui ora ricorrono quarant’anni dalla morte: precoce, indubbiamente, per l’uomo (nato a Napoli nel 1915, morto a Salerno nel 1976) e la famiglia (tra cui l’allora ragazzino Francesco Napoli, il critico e storico della poesia che ben conoscono anche i nostri lettori). Non precoce in senso assoluto: in un breve spazio di anni aveva fatto scoperte formidabili, ognuna delle quali, dalla città di Velia alla Porta Rosa, al Tuffatore, avrebbe creato la gloria di un uomo. Non in Italia, naturalmente (che non sa chi sia Santo Mazzarino, che ha dimenticato Gatto e Quasimodo, che ha rimosso la sua anima meridionale, cioè il suo legame con l’eterno-fatto-storia dal Partenone…), non in questa Italia. Ma torneremo con riflessioni in merito alla grandezza delle scoperte dell’uomo, alla bellissima celebrazione svoltasi sabato 30 Aprile a Salerno, visibile in streaming, un’ora e mezza di cultura che in altri tempi sarebbe stato un filmato della Rai, televisione nazionale e in bianco e nero, ai tempi di Leone Piccioni; oggi è stata (impeccabilmente) realizzata per iniziativa della Casa della Poesia di Salerno, e con il contributo della stessa famiglia Napoli. Torneremo sull’argomento, e, fuori di questa rubrica vi racconterò la Storia del tuffatore di Paestum. Nel mondo, nell’arte, nel mito, e anche storia del mio incontro con questo capolavoro, divenuto fondante nella mia poesia e nel mio pensiero.
Ora restiamo sull’immagine e la poesia che scrissi dopo la visione. L’attesa, per anni preparata, epifania. Il tuffatore di Paestum è una di quelle opere in cui l’artista ci offre una visione cosmologica del mondo, ponendo chi la osserva di fronte al problema assoluto della vita eterna: come nelle pitture di Altamira, la cappella degli Scrovegni di Giotto, la Sistina, il Partenone, l’artista svela e mette in scena il problema originario della trascendenza e della vita ultraterrena. Un tuffo, verso le acque dell’ignoto e dell’Origine.

 

 

Tuffatore

Parole del tuffatore di Paestum

Io sono l’anima di tuo padre, il tuffatore:

ti ho seguito ogni giorno, ti sono accanto,

conosco come allora le tue zone d’ombra,

il linguaggio dei moti tracciato dalla tua faccia,

niente è cambiato da allora, in questo senso.

Questa è la prima cosa che ho scoperto,

la prima che volevo dirti: non cambia la percezione

dei tuoi attimi, come non cambiava

di notte, nel sonno, o per la distanza.

So che questo mio soffio (dal fondo dell’acqua, tra le attinie)

sarà per te come le mie parole un tempo:

che ti infondevano memoria e coraggio,

più del vino o di una donna che ti guarda.

La mia prima scoperta, la prima verità è che nulla

si spezza nel segreto dell’anima.

Il resto è confuso, è presto per cercare di riferirti,

coralli, attinie, vite che si disegnano da un moto

d’acqua e si dileguano all’istante.

Non tutto è luce, trasparenza, silenzio,

cunicoli di buio, respiri compressi, poi voci

che inalano in me come se io parlassi.

Scivolo verso un fondo sempre più distante

e sento che una luce sommersa mi chiama da Oriente:

non so dove finisca, per ora,

non so che cosa sia ma so che amore

la muove e ne determina il respiro.

Di questo viaggio parlerò più avanti,

quando esperito sarà conoscenza,

posso parlarti di quanto ho lasciato,

sopra la superficie azzurra delle acque,

tra le sabbie bianchissime, le palme,

l’ombra degli ulivi, il vino

che veniva versato dalle anfore:

ama la terra rosa nel tramonto,

immergiti nel mare per gioco, come un tritone,

gusta la frutta, il pane, bevi e mangia,

ascolta le risa delle ragazze,

cerca la loro bocca, ridi e dispèrati,

ringrazia ogni giorno il tuo paese lucente.

Io non sono tuo padre ma la sua anima,

non so quello che vivo ma ricordo,

la riva, la piscina, i colori che formano

lo strano disegno della vita mortale.

Vivi in quella ceramica smagliante e attendi

quanto saprò dirti più avanti, alla fine del viaggio.

Ma ora che dormi come quando in una culla

sembravi cercare i segreti del mondo,

ora che hai spalle più larghe e più radi i capelli,

ascolta le parole della mia anima:

non so molto di lei – di me stessa –

(è presto, figlio, non conosco abbastanza,

ho appena iniziato, sto nuotando),

non pensare al mio corpo (è tardi,

perle, quelli che furono i miei occhi,

e le mie labbra contratte in corallo),

ma ho conoscenza del loro matrimonio,

di quando vivevano all’unisono nel mondo

e io, anima di tuo padre, il tuffatore

ti consegno solo questa esperita certezza

(dal fondo dell’abisso, nel brivido del tuffo):

che anche l’uomo può amare eternamente.

Roberto Mussapi

(Da La polvere e il fuoco, Mondadori, 1998, ora in Le poesie, Ponte alle Grazie, 2014;
nell’immagine di apertura: Teresa Maresca, particolare dal “Tuffatore)

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