Attilio Del Giudice
Una piccola storia di paese

La pasticciera

«Carmen era una donna evoluta, aveva lavorato in Germania, a Francoforte in fabbrica e, poi, sei anni, a Parigi in una creperie vicino al museo Pompidou. Tornata a casa, aveva aperto una pasticceria elegante»

Veniva quassù, al sanatorio, ogni giorno, col caldo torrido, col freddo, con la pioggia, con la neve. Camminava lentamente per via della salita in alcuni tornanti troppo ripida. La strada era stretta e tortuosa e l’accesso era vietato alle auto private, ai taxi e a tutti gli altri mezzi pubblici, per permettere il passaggio delle autoambulanze dell’ospedale. Il vecchio preside procedeva a piedi. A metà strada, dove c’era uno slargo con una veduta di tutta la vallata, si fermava pochi secondi per cercare di ripristinare un po’ il fiato, poi riprendeva il cammino senza altre soste. Veniva per una giovane donna. Alcuni dicevano fosse la figlia, altri affermavano perentoriamente che fosse la seconda moglie. Tutti concordavano sul fatto che questa donna, sui trent’anni, colpita dalla tisi, fosse bellissima.

In paese si raccontavano strane storie e qualcuno si compiaceva di montare intorno a questa coppia veri e propri romanzi sceneggiati. Spesso, venivano inventati spunti piccanti, generalmente per divertire, per far ridere, ma, improvvisamente, pare che, da un’infermiera del sanatorio, fossero arrivate notizie più concrete e scandalose, benché  nessuno si fosse presa la briga di vagliare l’attendibilità della fonte. Si diceva, per esempio, che fra i due, in ospedale, ci fossero stati amplessi, anche in presenza di altre malate. Una cosa inventata di sana pianta, che, tuttavia, aveva preso piede ed era, spudoratamente, sulla bocca di molti paesani. Un accenno, piuttosto esplicito, durante la predica della messa domenicale delle undici, lo fece, inopinatamente, perfino don Fabrizio, il parroco della diocesi: «Vergognose nefandezze vengono perpetrate anche da noi, dando scandalo in un luogo di cura, di sofferenza e di preghiera quale è il nostro Sanatorio».

La pasticciera, Carmen, era una donna evoluta, aveva lavorato in Germania, a Francoforte in fabbrica e, poi, sei anni, a Parigi in una creperie vicino al museo Pompidou. Tornata a casa, aveva aperto una pasticceria elegante. Si sentiva diversa e lo era in realtà. Aveva avuto frequentazione con artisti e galanti borghesi durante il suo soggiorno parigino ed aveva acquistato una mentalità cittadina cordialmente aperta. Gli uomini, in paese, la corteggiavano grossolanamente, lei sapeva civettare, non lesinando sorrisi e ammiccamenti, senza, però, compromettersi più di tanto; ma le mogli la consideravano comunque pericolosissima e poco meno di una puttana. E pensavano che solo una puttana potesse avere la sfacciataggine di chiedere direttamente al vecchio preside, se la donna che lui andava a visitare ogni giorno fosse la sua signora.

Carmen, in un primo momento, si rifiutò di assolvere questo compito, aveva capito che l’interesse di quelle feroci pettegole era di sapere certamente le cose del preside, ma, soprattutto, di mettere lei in una situazione imbarazzante; però, per la verità, accadde che la curiosità personale prevalse, prese sempre più consistenza e non sembrò dissimile da quella delle paesane; così, Carmen si fece animo e coraggio e decise di parlare al vecchio preside. Del resto l’eloquio e la disinvoltura non le facevano difetto.

«No, non è la mia signora – disse il preside – Perché me lo chiede?».

«Sa, qui, in paese, basta un niente per ricamarci sopra e, allora, secondo me, è meglio mettere a tacere le malelingue e dire come stanno le cose… Questo è un paese di gente meschina, rozza, volgare…».

«Come stanno quali cose?  A chi devo dar conto?».

«Preside, non mi fraintenda! Io, l’ammiro, mi piace molto la sua persona, mi dà l’idea di un gentiluomo, di quelli che non se ne vedono più e mi dispiace se qualcuno, alle spalle, le manca di rispetto».

«La ringrazio, ma non ho ancora capito che si vuol sapere da me, affinché non mi si manchi di rispetto?».

«Glielo detto, se la signora…».

«Non è mia moglie, non è mia figlia, non è una nipote. Vera, questo è il suo nome, è molto malata e non ha nessuno al mondo, tranne me, almeno fino a quando questa salita, che devo affrontare ogni giorno, non mi stronca definitivamente».

Carmen ebbe un moto spontaneo dell’anima e baciò sulle guance il vecchio preside. «Mi perdoni!» – disse – e, coi lucciconi negli occhi, scappò come una ragazzina.

Passarono pochi giorni da questo incontro, quando, alle sette del mattino, un’autoambulanza portò via la bella signora malata. Si disse che la donna era agli sgoccioli e che il preside aveva voluto che tornasse in città, a casa e non morisse in un letto d’ospedale.

In paese, a poco a poco, le maldicenze sul vecchio preside e sulla misteriosa signora coi polmoni devastati dalla tisi si affievolirono e quella storia lentamente si spense, ormai quasi nessuno più la ricordava.

Carmen, no! Lei teneva vivi nell’anima quel disagio e la struggente amarezza di essersi trovata di fronte a un forte, irriducibile amore e a un dolore vero, profondo, il dolore di un animo nobile, che non poteva ricevere conforto dalle parole, ma che non poteva essere involgarito dalla cattiveria meschina di quella gente, di quei miseri paesani, ai quali la sorte aveva voluto che lei, venuta da Parigi, vendesse i suoi dolci raffinati e, generosamente, regalasse i suoi splenditi sorrisi.

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