Gianni Cerasuolo
Fa male lo sport

Forza Milan, addio

L'autunno del patriarca (alias Berlusconi) passa anche attraverso la vendita del gioiello rossonero. Un'epopea durata trent'anni, tempestata di debiti quanto di titoli. Finita nelle fauci della grande balena cinese

L’autunno del patriarca passa anche dal calcio. La sua squadra, presa a schiaffi da tutti, è finita settima in serie A, superata anche dal piccolo Sassuolo. E gli stranieri sono alle porte. Berlusconi sta per cedere il Milan: ai cinesi, proprio a loro, bastardi comunisti un po’ sbiaditi, capitalisti camuffati che governano la finanza e si stanno prendendo tutto, anche il calcio, come gli sceicchi e gli oligarchi russi.  Dovrà lasciargli, certo a un buon prezzo, il suo giochino preferito, il prezioso stratagemma della sua scesa in campo: quell’A.C. Milan che tolse a Giussy Farina nel 1986. Fu un’escalation di successi, di trofei e titoli, di luci a San Siro. Perché l’imprenditore milanese aveva fiuto e mezzi. Ed un senso spregiudicato della conquista, anche mettendosi sotto i piedi le regole. Come imparammo a conoscere un po’ di anni dopo.

Berlusconi aveva puntato il calcio già nell’80, con la piratesca operazione via etere sul Mundialito, vetrina pallonara della dittatura uruguayana; una volta numero 1 del Milan, proseguì squassando il mercato con la sua potenza economica e con operazioni molto disinvolte come l’acquisto di Lentini dal Torino: 65 miliardi di lire (roba da far fare uno zompo dalla sedia anche all’avvocato Agnelli, che pure non badava a spese per il pallone e aveva preso Vialli sborsando 45 miliardi) più un altro pacco di miliardi in nero a Borsano, il presidente del Torino, deputato del Psi craxiano. Poi bastò un bel colpo di spugna una volta a Palazzo Chigi: falso in bilancio via, cancellato, tutti assolti.

berlusconi milan2Quei tempi sono lontani. Adesso il presidente-Cavaliere è stato abbandonato un po’ da tutti. Come in politica. «…gli avvoltoi s’introdussero attraverso i balconi della casa presidenziale, fiaccarono a beccate le maglie di filo di ferro delle finestre e smossero con le ali il tempo stagnante dell’interno…», sembra di rileggere l’avvio dell’Autunno di Garcia Marquez. I tifosi non vedono l’ora che Berlusconi si faccia da parte: «Vattene, non ne possiamo più» gli hanno vomitato dai social, ingrati. Ha risposto ricordando tutto quello che i rossoneri hanno vinto con lui e il quasi miliardo di euro (820 milioni ad essere precisi) speso nel corso degli anni di presidenza: «Dopo 30 anni di caviale e champagne, potremmo sopportare con più eleganza un digiuno passeggero».

Trent’anni, la fine di un epoca. Lui cercherà ancora di resistere, di acciuffare una presidenza onoraria. Potrebbe persino tirare fuori qualche coniglio dal cilindro. Forse le resistenze sono soltanto una messinscena mascherata da ragioni di cuore e di passione. Ormai è un accerchiamento. Fidel Confalonieri, come lo chiamava Brera, gli consiglia da tempo di vendere il club, i figli Marina e Piersilvio non vogliono più sentire ragioni. La primogenita non ha mai sopportato il salato impegno finanziario verso il calcio. Quando il padre spese 80 miliardi di lire per assicurarsi Rui Costa fece fuoco e fiamme e non stette zitta: a lei, il papà aveva detto che non avrebbe cacciato tutti quei soldi. Il management Fininvest – e non più lui, da solo, come accadde con il brocker thailandese Bee Taechaubol – sta trattando l’affare con una cordata cinese. C’è già un preliminare d’intesa per la vendita della società con un 60-70% di acquisizione di quote. Termine massimo per l’accordo, il 15 giugno. Tra gli investitori dovrebbe esserci anche Jack Ma, uno degli uomini più ricchi della Cina, colui che alla fine degli anni Novanta ha creato Alibaba, l’Amazon cinese, comproprietario del Guangzhou Evergrande Taobao, la più importante squadra di calcio del grande paese asiatico, allenato per tre anni da Marcello Lippi, che laggiù è andato a vincere altri campionati e altre coppe. Impazza il tourbillon di soldi che gli acquirenti sarebbero disposti a pagare: si è scritto di una base di 500 milioni di euro più il pagamento dei debiti, intorno ai 300 milioni.

Trent’anni e un profondo rosso. Il bilancio 2015 del Milan si è chiuso con un passivo di 89 milioni di euro; quello del 2014 fu peggiore: 91. La Champions manca dalla stagione 2013-14 e soldi da quel fronte generoso non ne vengono più. Fininvest nel 2015 ha sborsato 150 milioni per riequilibrare un po’ la gestione e rilanciare il club. La Gazzetta dello Sport ha calcolato che «in tutti questi anni il Milan ha bruciato 722 milioni chiudendo in attivo solo 3 volte in un trentennio, l’ultima nel 2006 (+11,9) quando fu venduto Shevchenko». Si legge che degli 820 milioni versati dal socio Fininvest nel trentennio, «più di un quarto si è concentrato negli ultimi due anni e mezzo: 64 milioni nel 2014, 150 nel 2015, 10 quest’anno».

berlusconi milan van bastenIl declino non è solo questione di cifre: la gente si è disaffezionata al Milan. Ultimamente, diecimila presenze in meno allo stadio: un crollo. L’ultimo scudetto è stato vinto nella stagione 2010-2011, con Massimiliano Allegri poi cacciato via in malo modo. Dopo di lui, quattro tecnici: Seedorf, Inzaghi, Mihajlovic e, per ultimo, Brocchi in una sorta di sliding doors della panchina. Cinque allenatori in venticinque mesi. Brocchi l’ha imposto lui, il presidente, quando mancava poco alla fine del campionato: 6 partite, 8 punti. Tanto valeva lasciare al suo posto Mihajlovic. Esaminando su Repubblica il deficit di bilancio, Enrico Currò e Luca Pagni hanno sottolineato: «Dei 13,6 milioni in più destinati al fondo accantonato per gli allenatori esonerati e il loro staff, il padrone può dolersi solo con sé: non vi è ancora conteggiato Mihajlovic, licenziato dopo Seedorf e Inzaghi». Ma si sa: Berlusconi si è sempre vantato di capire di calcio, disegnava formazioni e tattiche, cianciava di 4-3-1-2, pretendeva di imbeccare gli allenatori, anche gente come Sacchi, Capello, Ancelotti. Ma almeno allora i rossoneri stravincevano.

In verità, sono anni che il club è in uno stato confusionale per strategie, investimenti e calciatori scelti, diviso al vertice tra Barbara Berlusconi e Adriano Galliani, condizionato dai bilanci e piombato in un regime di austerità. I 28 trofei vinti negli anni d’oro berlusconiani – tra cui 8 scudetti e 5 Champions – sembrano appartenere all’era glaciale. Al crepuscolo politico del leader di Forza Italia si è andata accompagnando, più o meno, la crisi del club in una specie di destino parallelo e inesorabile.

milan gallianiEppure, ancora nel 2014 il Milan risultava, a parere della rivista Forbes, tra i team sportivi più prestigiosi al mondo. Insieme all’altro classico brand italiano, la Ferrari. Di sicuro il più popolare in Cina. Tant’è che nei retroscena delle trattative di questi due anni, prima con Mister Bee e poi con gli altri magnati asiatici, si è parlato – lo hanno scritto in molti compreso Marco Bellinazzo nel suo Goal Economy, il libro edito da Baldini & Castoldi, che ha come significativo sottotitolo: “Come la finanza globale ha trasformato il calcio” – dell’interesse all’affare dello stesso governo cinese e di politici di primo piano del regime. Ha annotato il giornalista del Sole 24 Ore: «Politici molto vicini al presidente, nonché segretario generale del Partito comunista, Xi Jinping, che il 16 marzo 2015 ha annunciato l’avvio di riforme per una rinascita del calcio definendole come “qualcosa di imprescindibile per fare della Cina una nazione di vertice nel panorama sportivo”. Xi Jinping e la Cina ambiscono a ospitare l’edizione dei Campionati mondiali del 2026, e possedere un asset come il Milan, uno dei brand calcistici più popolari e vincenti della storia del calcio, e rendere più competitivo il torneo interno e la Nazionale, sembrano degli ottimi motivi per supportare questo investimento “industriale”».

Queste cose venivano scritte un anno fa quando era in piedi la trattativa con Mister Bee, poi misteriosamente tramontata quando sembrava che stesse per concludersi. Ma fanno da sfondo anche alle mediazioni di queste settimane.

I cinesi, del resto, sono già sbarcati nel calcio italiano. Su palcoscenici più piccoli e per budget modesti. Due anni fa un imprenditore cinese è diventato padrone del Pavia. Un altro, il magnate Michael Lee, è in qualche modo dentro il Genoa avendo rilevato la metà di “Giochi Preziosi”, l’azienda di giocattoli di Enrico Preziosi, il patron della squadra rossoblù. A Venezia sono arrivati i russi ma poi si sono eclissati, soppiantati dagli americani come in uno scenario da guerra fredda. I Paisà hanno scalato anche il Bologna. A Roma ci sta la cordata a stelle e strisce di James Pallotta e all’Inter il tycoon indonesiano Erick Thohir. La stessa Juve, saldamente in mano agli Agnelli, ha uno sponsor della “casa”, Jeep, ma vanta tra i principali partner l’olandese Randstad, la holding internazionale che si occupa di formazione professionale e di lavoro. Juve, Milan e Inter sono le poche squadre del campionato italiano che hanno un appeal anche all’estero. Gli scenari sono rapidamente cambiati e ancora cambieranno. Bye, bye Mr.Berlusconi.

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