Angela Di Maso
"Il cortile" alla Sala Assoli

Beckett ai Quartieri

Racconto di un pomeriggio speciale, a Napoli, fra teatro e pioggia... a dimostrazione che la forza della scena supera tutto. Specie se è quella di Scimone e Sframeli

Tutto sembrava essere ostile allo spettacolo della compagnia Scimone Sframeli Il cortile – premio Ubu 2004 – in scena in unica data alla Sala Assoli di Napoli. Con Spiro Scimone, Francesco Sframeli, Gianluca Cesale. Regia di Valerio Binasco. Lo storico teatro si trova ubicato nel cuore dei Quartieri Spagnoli, in un vicolo che odora di frittura e di scadente detersivo per bucati stesi all’ombra, mai baciati dal sole, e in cui le grida dei bambini sono diventate folcloristica colonna sonora per tutti gli spettacoli.

Una macchina di grossa cilindrata è parcheggiata davanti alle porte del teatro. Piove a scatafascio, ma soprattutto la partita del Napoli sarebbe cominciata di lì a poco. E quando gioca il Napoli, per di più “in casa», la città si ferma, trattiene il fiato per poi ricacciarlo tutto di un colpo al primo goal. L’eco che ne viene fuori ha una potenza sonora smisurata, rimbombante, soprattutto nei Quartieri. Si decide quindi di andare in scena alle ore 19, ma piove ancora tantissimo e c’è sempre quella macchina parcheggiata dinanzi al teatro che impedisce agli addetti di aprire le porte ed invitare la gente ad entrare.

Dopo molto, finalmente avanza un uomo, il proprietario della macchina. È uno della zona. Meglio non dirgli nulla, anzi, va anche ringraziato per la gentile concessione. Quello che accade è straordinario: la Sala Assoli viene improvvisamente invasa!

Dunque, ricapitolando: è sabato sera, le porte del teatro erano serrate perché ostacolate, c’è la partita del Napoli e piove, piove tantissimo. Eppure ai Quartieri sembrava la più bella delle serate estive.

La Compagnia è siciliana. Non ha “parentato” partenopeo. Quello allora era proprio pubblico; un pubblico che si era mosso da casa solo per vedere Il cortile.

Il palco è ricoperto da una plastica sporca. Una seggiola girevole, una moto adibita a sgabello, un vecchio mobile da cucina ed una scala – (scene e costumi di Titina Maselli) – con all’estremo un neon a forma di B. In scena due uomini. Due barboni. Uno si prende cura dell’altro. Uno lo fa con il corpo perché l’altro è infermo, l’altro, l’infermo, lo tiene compagnia con le parole. Devono uccidere un vecchio topo che di notte rosica i piedi dell’infermo e mentre stanno per colpire, da dietro al mobile/moto esce un terzo barbone che prima racconta di essere stato abbandonato dalla famiglia, ma che alla richiesta esauditagli di un tozzo di pane, avvolge lo stesso in un foglio di giornale per portarlo alla moglie. Il terzo barbone non cammina. Striscia. D’altronde, come dirà egli stesso, a questo sono stati ridotti.

maxresdefaultUn’ora esatta di spettacolo. Un solo buio per indicare lo scorrere del tempo in un fermo immagine.

In luce, i due barboni sono esattamente dove erano prima; così anche il terzo. Quel che si svuota è la sacca contenente pezzi di pane diventati verdi tanto la muffa.  Eppure nella sacca c’è ancora una cosa, una cosa che richiama quella stramba forma di B del neon: il buio.

Ma quella B assume d’improvviso anche un altro riferimento: Beckett; perché tutto nella scrittura drammaturgica, nella costruzione registica ed attoriale, richiama l’insegnamento del vate irlandese.

La drammaturgia si snoda in una storia apparentemente semplice, con continui rimandi e ripetizioni di battute, battute secche, brevi, spesso fatte di sole monosillabi, ma incisive, di quelle che ti si imprimono nella mente senza che tu lo voglia; di quelle che ti inteneriscono il duro cuore; di quelle che ti fanno sorridere alla maniera però umoristica di Pirandello.

Così gli attori. Recitano dando poco colore alla battuta, perché la parola stessa diventa un prisma riflettente che illumina lo spettatore, ma allo stesso tempo lo getta nell’oblio dell’assurdo. Un assurdo – e qui Beckett e Ionesco nell’intento, ma Pinter nella struttura secca – che consta nel dovere dare necessariamente un senso al non senso, dicendo le cose, parlando e mai restare in silenzio, perché anche se la parola sembra essere stata svuotata, varrà sempre la pena dirla, come insegna Giorni felici, in cui Winnie, la protagonista, ogni volta che sentirà Willie, il marito, muto, pronunciare anche solo un suono, dirà: «Oggi è un giorno felice, perché abbiamo parlato».

Per Spiro Scimone, autore de Il Cortile, nel solco di una estrema impotenza a trarre un qualsiasi senso compiuto dalla realtà, le parole sono rese al stramberia suppliziante di volere comunicare che non c’è niente da comunicare. Raccontare è unicamente possibile attraverso una serie di finzioni, affabulazioni, che i protagonisti della commedia – i bravissimi, intensi e convincenti Scimone, Francesco Sframeli e Gianluca Cesale – (progressivamente sempre più tesi alla disgregazione della propria identità personale), si raccontano nello sforzo disperato e vano di dare consistenza a se stessi e al mondo. A se stressi “nel” mondo. La recitazione segue la drammaturgia: essenziale e priva di barocchismi. La regia affidata all’esperto Valerio Binasco segue drammaturgia e recitazione: è minimale. Nessun suono. Nessun gioco luce. È un teatro di parola. Di pause. E di ancora parola.

Scimone e Sframeli col loro teatro rappresentano la volontà stoica di andare avanti comunque, nonostante l’implacabile verdetto sulla difficile condizione umana, metafora anche di quella teatrale.

Molti gli applausi. Strameritati.

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