Valentina Mezzacappa
Esce il film con Benedict Cumberbatch

Povero Amleto!

L'Amleto di Lyndsey Turner è un brutto film che spezzetta e prova a ricostruire un mostro sacro dell'iconografia globale. Ne viene fuori solo una marionetta senza alcuna psicologia

È nelle sale italiane, distribuito da Nexo Digital, Amleto di Lyndsey Turner con l’autoironico e eclettico Benedict Cumberbatch. Quello della Turner è un Amleto che sin dalla prima scena colpisce per gli interventi sul testo. La regista taglia scene, ne aggiunge di sue, gioca con l’architettura drammaturgica del Bardo e con l’evoluzione psicologica dei suoi personaggi, prima fra tutti quella del suo protagonista. È un lavoro che inizialmente spiazza e disorienta, ma che per una discreta parte della rappresentazione offre spunti critici interessanti e si amalgama con sorprendente armonia al testo originale. Sfortuna vuole però che questa magia duri appunto solo per una piccola parte della rappresentazione, rivelando così una delle sue debolezze più importanti.

Questo, e duole dirlo considerata la ricchezza di risorse a disposizione della regista, è un Amleto discontinuo, altalenante, che troppo spesso regala la sensazione di essere un’opera incompiuta, un work in progress, una sessione di prove aperta al pubblico. Le sue tre ore sono disseminate di interessanti contaminazioni, soluzioni narrative e visive sorprendenti che però non sono sufficienti a sostenere il peso di questo incomparabile classico. Come un martin pescatore, la Turner vola giusto sul pelo dell’acqua e quando ne infrange la superficie non va abbastanza a fondo. Il risultato complessivo è un tutto che è solo la somma delle sue parti. Parti che a loro volta ripropongono la medesima incostanza del tutto traducendosi in personaggi incoerenti e privi di umanità.

hamlet lyndsey turnerLa mancanza di umanità è l’altra grande pecca di questa produzione e questo fa male perché Shakespeare ha sempre preferito una visione del mondo e dell’umana specie in soggettiva. Gli attori spesso pronunciano le loro battute come se fossero ancora impegnati nel processo di memorizzazione del testo, facendo così precipitare nel vuoto quegli attimi “di grande altezza e momento” così sapientemente scritti dal Bardo. E nei momenti in cui non sono impegnati a fare a pugni con le battute come fossero degli scioglilingua, cercano di conferire naturalezza e spontaneità con risultati stonati e pause senza senso.

Vero che la Turner riesce nell’intento di esaltare la qualità introspettiva dei monologhi del protagonista escogitando una sapiente sinergia tra l’uso delle luci, del movimento fisico, della scenografia e del suono ma è un lavoro che non riesce ad inserire con organicità all’interno di tutta la rappresentazione perché più volte cade in facili letture psicologiche. L’esempio più lampante è quello dell’isomorfico declino del palazzo reale, il quale all’improvviso, grazie ad una spettacolare esplosione, si riempie di polvere e detriti. Delude anche la scelta di vestire il protagonista come un soldatino giocattolo a grandezza naturale, un soldatino che ostenta in maniera plateale e demenziale quello che forse dovrebbe essere un profondo e intimo desiderio di sfuggire alla decadenza morale che lo circonda rifugiandosi nel proprio Io Bambino.

Incostante è anche il lavoro sui personaggi. Claudio è trascurato, distratto, non sempre presente e ben inserito nel contesto. Gertrude, come anche Ofelia, sboccia sfortunatamente negli ultimi atti. Per la maggior parte del tempo appare come intrappolata in una bolla, una regina poco regale, una madre poco materna.

Turner investe poco sulle dinamiche familiari come su quelle di stato. Non arriva il conflitto tra figlio e patrigno, l’amore-odio del figlio per la madre, il gap generazionale tra figlie e padri, il legame affettivo fra fratelli. Così capita che il pranzo nuziale risulti in una messa in scena precisa e spettacolare ma priva di umanità, che l’esplosione di rabbia e disperazione di Amleto nelle stanze della madre sia attutita da una quarta parete, che Laerte non mostri alcuna resistenza all’idea della follia di Ofelia. E il celebre monologo dell’essere o non essere, che la Turner anticipa, sia null’altro che un piacevole esercizio di dizione.

Il team creativo, composto dallo scenografo Es Devlin, dal video designer Luke Halls, dalle luci di Jane Cox e il suono di Christopher Shutt è senza dubbio la punta di diamante di questo Amleto e riesce, anche se non sempre, a sostenerne l’impianto registico debole. Notevole è anche il lavoro svolto dalla costumista Katrina Lindsay, soprattutto per quanto concerne il buon Orazio e il guardaroba di Gertrude. Nelle sue scelte si intravvede l’influenza di Jarman, quello di Edoardo II, e anche un tocco viscontiano, del Visconti de La Caduta degli Dei.

L’ego della Turner permea così profondamente l’intera opera che risulta difficile valutare l’interpretazione di Cumberbatch. Interpretare Amleto è un’esperienza importante, un rito di passaggio. Amleto è un ruolo che lascia il segno, un ruolo che inevitabilmente suscita interrogativi artistici e umani importanti. In questi anni Benedict Cumberbatch è maturato moltissimo, ha compiuto un percorso artistico con grande consapevolezza e umiltà. Ha dato prova in più di un’occasione di saper miscelare con la precisione di un chimico tecnica e sensibilità.

Vedere Cumberbatch nell’Amleto di Lyndsey Turner fa male.

Non si può fare a meno di pensare al dialogo sulla menzogna del principe di Danimarca con Rosencrantz e Guildenstern. Valutare l’interpretazione di Cumberbatch è un’impresa ardua, forse anche impossibile, perché troppo forte è la sensazione che egli sia stato impiegato come uno strumento musicale da chi di quello strumento, illuso di conoscerne ogni tasto e ogni nota, in realtà aveva capito poco e niente.

Facebooktwitterlinkedin