Vincenzo Nuzzo
Cartolina dal Portogallo

Scampia a Lisbona

La malinconia per il passato calpestato ti può cogliere ovunque. A Napoli come a Lisbona ci sono luoghi (e momenti) in cui la bellezza ti aggredisce di soppiatto. E ti lascia atterrito

La ben nota melanconia di Lisbona è completamente diversa da quella di Napoli. Che è poi anch’essa, al di là delle apparenze oleografiche, una città fortemente melanconica. Lo sono, per la verità, un po’ tutte le città, nella consapevolezza di chi le descrive. Penso ora al compianto poeta (e medico) Moacyr Scliar. Che, seduto nel suo quartiere di Bomfim a Porto Alegre, nel bel mezzo del Brasile gaucho delle immense e solitarie pámpas (erba ed erba ed erba, accarezzata dal vento; acqua, acqua ed acqua, rispecchiante il fulgore del cielo), descriveva in Saturno nos Trópicos proprio la melancolia. Rifacendosi a Burton (The Anatomy of Melancholy). Conosco benissimo quel quartiere, e giuro che nulla in esso suggerirebbe mai alcunché di così profondamente melanconico. È un quartiere borghese, tranquillo, ordinato ed ordinario quanto mai. Abitato in prevalenza da una borghesia intellettuale e commerciale di origine ebraica. Eppure vi è nata una così profonda ed ombrosa riflessione.

A Lisbona potrebbe accadere lo stesso. Di quartieri come questi ce ne sono infatti in abbondanza. L’umida aria atlantica fa sì che su di essi gravi sempre qualcosa che induce ad una sorta di raccolta ed immancabilmente dolorosa ricerca interiore. Dolorosa perché chiusa. Perché nell’esteriore, lì gravido di acque e nello stesso reso leggero dalla brezza, sembra che domini una sospensione insostenibile per la piena gioia. Sembra mancare quella sostanza densa della quale la vita si intesse, acquistando spessore, ed insieme abissi e vette. Mordenti, sempre, inquietanti, trascinanti. E che ti lasciano spossato, annichilato. Sono quelli i momenti in cui non hai più risposte. E così non ti resta che contemplare. Immoto, come in preda ad una specie di passiva ebetitudine. È l’essere espugnato e soverchiato da quella spasmodica miscela di bene e male che sempre in questi luoghi materia di sé la più pulsante vita.

Questo non è Lisbona. Questo è Napoli. Senza volerlo, ora l’ho descritta. Anzi ho descritto uno di quei suoi momenti assolutamente disperati. Ma in cui di tanto in tanto la bellezza ti aggredisce di soppiatto. Senza però mai perdere le sue vesti lacere. Quella sua attitudine eterna a restare costantemente sul punto di secernere pus dalle sue piaghe. Invisibili ma sempre presenti. Tendenza, questa, ad un atto che in qualche modo è anche irradiare la luce di una nascosta bellezza attraverso gli strappi di un sudicio abito. Che è poi null’altro è se non la sua pelle stessa. La famosa Pelle di Napoli. Pelle lucida, lubrica e etero-olezzante da organismo marino. Che incessantemente ti chiama ad inabissarti con lui.

È stato questo strano genere di bellezza che mi ha trafitto nel mentre, a Napoli, mi aggiravo curioso e nostalgico per un quartiere estremamente periferico. Prossimo, molto prossimo alla famigerata Scampia. Il quartiere dove per trent’anni ho fatto il pediatra. Lottando, sperando, faticando, soffrendo, piangendo. Ma soprattutto ponderando, tra le varie cose, un aspetto in particolare del luogo: la serietà mortale del viverci. La sfida estrema che è il vivere proprio qui.

E che fatalmente è sempre anche tragica poesia. Intendo però il viverci «davvero». Cioè «per sempre». Cioè senza potersi nemmeno immaginare di poter andar via un giorno. E non solo perché vi si è costretti, ma anche perché alla fine lo si vuole. Perché si ama ormai il luogo e non si vorrebbe, per tutto l’oro al mondo, abbandonarlo alla sua malinconia. Proprio come con un figlio sfortunato. Quanta gente ho conosciuto, in questi trent’anni, che è vissuta sempre così! Quanti bambini ho visto crescere in questo modo!

Esattamente in questo luogo. A pochi passi da dove la foto mi è venuta incontro lasciandosi scattare. Ebbene proprio dei bambini, dei loro sogni quotidiani – una delle materie vive del luogo – mi ha parlato la bellezza che nella foto di colpo mi ha pugnalato. Mentre come un ebete correvo per le vie d’acqua stigea di questa terra che non sembra potrà (e nemmeno vorrà) mai cambiare. Che mistero!  Essa è oggettivamente una fogna! Non è affatto la città brillante di cui spesso si parla anche in questa rivista. Quella città che scintilla scalpita e rampa tra le sue macerie, sforzandosi di emulare le tante città europee e planetaria che da tempo la sorpassarono nel suo ruolo di «capitale». E che, del tutto ovviamente, essa però non raggiungerà mai più. A meno che non scatti del tutto imprevisto uno di quei fatali meccanismi nel sommerso Orologio della Storia, decretando un del tutto improbabile cambio di rotta. Che avrebbe però il senso di un vero e proprio mutamento di essenza.

Ma comunque, al di là di tutto, io resto convinto – ed i trent’anni passati a ponderare in questo quartiere me l’hanno confermato – che è solo questa la Napoli «attuale», ovvero pienamente «storica». La Napoli che è ideale realizzato, ideale tradotto in realtà ultima in cui ogni possibilità è già consumata. Come nel sistema onto-dinamico aristotelico della potenza tradotta in atto. La «sostanza» è ciò che è atto pienamente e per davvero. Questa è insomma la Napoli vera.

foto chiaiano 1È vero che dal dopoguerra in poi essa è divenuta sempre più una megalopoli cancerosa. A metà tra bidonville e paesone iper-urbanizzato. Ma è la sola Napoli che abbia subito davvero cambiamenti. I cui prodotti risalgono ancor oggi le colline cittadine affacciandosi bramosi sul mitico Golfo, sul fatale «panorama». Anche lassù è visibile il cambiamento. Ma non sotto. Non nell’altra Napoli. Quella di sempre. Ma cos’è allora quest’altra Napoli? Vera essa non lo è di certo. Perché intanto si è auto-generato quel suo doppione di cui non si può proprio far finta di ignorare l’esistenza. Nemmeno attribuendogli lo stesso nome del suo alter ego. Dunque non è affatto «vera» la Napoli di quella borghesia che continua a celebrare i propri rituali conformisti di sempre (solo arricchitisi intanto di un pizzico di esotismo in più, e di tanto, tanto solarissimo sport invernale). Non lo è la immota Napoli feudale che ancora La Capria constatava con ribrezzo nel suo Ferito a morte (ed altri libri) – ed il cui lemma è l’inguaribile sorriso sardonico sull’abito impeccabile. E non lo è nemmeno la Napoli-Cartolina (sempre La Capria), insieme a quella in cui ancora sono leggibilissimi  i segni della «mitologia» agro-dolce  partenopea (il guappo, il basso, la malafemmena, o ccafè, il balconcino etc). No, la Napoli vera è un’altra ormai. Non è più questa! Perché è «vera» solo la gente che vive nell’altra. Perché è la gente che vive per davvero seriamente. Perché rischia ogni attimo di trovarsi davanti ai segni spaventosi del fallimento e dell’impotenza a fronte dell’orrore. Eppure continua. Eppure crede. Eppure vive, lavora, cresce i figli. Disperatamente spera. Ma senza illudersi. Mai!

Ebbene trovo che la foto in cui mi sono imbattuto (scattandola) per un puro quanto strano caso costituisca un emblema straordinariamente sintetico solo e soltanto di questa Napoli. Ma soprattutto trovo che essa possa essere l’icona davanti alla quale tutti noi napoletani (quelli che vivo nei quartieri non veri e non seri!) dovremmo inginocchiarci in ammirazione di questa gente. Perché questa foto, fendendo fulmineamente l’intero spessissimo strato della melancolia dei luoghi – quella davvero priva della sia pur minima speranza –, ne raggiunge al nucleo più profondo. Che è poi l’esatto luogo descritto da Eckhart quando parla di Dio come uno spaventoso Gorgo («Sog») ciclonico. Nel cui occhio regnano la pace ed il silenzio da cui inavvertite sgorgano tutte le cose. Questo luogo ha lo stesso identico aspetto sereno di una cameretta di bambino. La cameretta a cielo aperto qui ritratta. Che per muro ha una grigia e ritorta lamiera, e per pavimento ha quel rugoso cemento dove a turno passano cartacce, bustacce di plastica, resti di cibo, fango, escrementi e sangue. E la cui struggente e perfino tragica bellezza è esattamente quella del sogno infantile. Sogno che gioca, gioco che gioca.

Vi può essere un luogo più promettente?

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