Fabrizio Coscia
Letture vagabonde

Pinocchio gotico

Viaggio al termine della notte di Pinocchio, lì dove il capolavoro di Collodi, usando uno scenario violento e perfetto, cattura l'immaginario occidentale. Sospeso tra sogno e paure

Nel cuore della notte, smarrito in un bosco, inseguito dagli «assassini», quando ormai sta per darsi per vinto, vede finalmente nel verde cupo degli alberi «biancheggiare una casina in lontananza». Siamo, lo si sarà capito, al capitolo XV delle Avventure di Pinocchio, quando il burattino, dopo la serata all’Osteria del Gambero Rosso passata con il Gatto e la Volpe, si ritrova da solo, ad attraversare la campagna, in un «buio così buio che non ci si vedeva da qui a lì», con i quattro zecchini d’oro ricevuti da Mangiafoco, facile preda dei due sciagurati predoni, che non esitano a dargli la caccia per rapinarlo. Il capitolo, in realtà, corrispondeva originariamente al finale della prima versione del romanzo di Collodi, pensato come una novella senza troppe pretese e pubblicato a puntate sul «Giornale per i bambini», un supplemento settimanale del quotidiano «Il Fanfulla», dal 7 luglio al 27 ottobre del 1881. Il titolo di questa novella era «La storia di un burattino».

E il miracolo fu che questa «bambinata» scritta solo per soldi uscì fuori perfetta, tra le creazioni più straordinarie della letteratura universale, un capolavoro ancora più riuscito dello stesso capolavoro che Collodi ricavò poi dalla sua prosecuzione (voluta, come si sa, dalle proteste dei bambini per la morte del burattino e l’interruzione del racconto). Perfetta perché senza un cedimento retorico, senza un’incertezza di tono, senza una sbavatura stilistica dall’inizio alla fine, senza alcun compromesso con le aspettative del pubblico, e risultato della vena creativa e immaginativa originalissima di uno scrittore in stato di grazia. Qui, in particolare, sul finire della storia, ci troviamo davanti a uno dei momenti più alti della letteratura gotica ottocentesca: Pinocchio, incalzato dagli assassini, bussa alla porta della casina senza ricevere risposta, finché non «si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto», che annuncia, spettrale: «In questa casa non c’è nessuno. Sono tutti morti». E quando Pinocchio la implora di aprirgli almeno lei, la Bambina risponde con una frase che mette i brividi ogni volta che la si rilegge: «Sono morta anch’io». Scopriamo così che la Bambina è uno spirito, una morta che aspetta solo la bara che arrivi a portarla via. Una situazione narrativa degna del Poe più macabro, ma di un Poe molto più sottile e raffinato.

pinocchio il gatto e la volpeSolo adesso, infatti, capiamo che il viaggio del burattino alò termine della notte in quella selva oscura e il salto oltre quel fosso pieno di «acquaccia lurida» non è stato altro che un viaggio verso il regno dei morti, di cui il biancore della casina e l’epifania spettrale della lunare Bambina sono gli inequivocabili segnali. Non a caso, la sparizione della Bambina e la chiusura della finestra coincidono con l’esecuzione capitale del burattino, che Collodi ci descrive con inaudita violenza: aggredito e accoltellato, Pinocchio sarà infine impiccato alla Quercia grande. Le sue ultime parole saranno: «Oh babbo mio! se tu fossi qui!», un grido, un’invocazione che sembrano raccogliere l’eco di un altro grido, di un’altra invocazione, quando pure Gesù sulla croce implora la presenza del Padre lontano, prima di esalare l’ultimo respiro. «E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprì la bocca, stirò le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lì come intirizzito». Un finale inconcepibile per una storia destinata ai bambini, di una forza narrativa che non ha eguali nella letteratura italiana di quegli anni.

Forse lo stesso Collodi si rese conto di aver osato troppo, perché quando il direttore del giornale lo convinse a riprendere la storia, la edulcorò con il più scontato armamentario della favolistica tradizionale, trasformando la Bambina in una Fata materna e rassicurante e la casina in un luogo magico dove i cani sono cocchieri in livree di gala, gli uccelli parlano e le carrozze sono imbottite di penne di canarino e foderate all’interno di panna montata e di crema coi savoiardi, tirate da cento pariglie di topini bianchi, come nella «Cenerentola» di Perrault. Eppure, nonostante questi graziosi effetti speciali volti a rimuovere il trauma della morte evocata e mostrata, qualcosa resta di quella violenza con cui si era chiusa la storia. Violenza che affonda le sue radici in una cultura contadina, atavica, da cui deriviamo tutti noi, e a cui dunque appartiene il nostro inconscio collettivo, e in una ferocia tutta italiana: qualcosa che come un fiume carsico percorre l’intero libro, nella sua versione definitiva, e ogni tanto riemerge, nella perentorietà visionaria con cui appaiono i conigli neri con la bara in spalla per portarsi via Pinocchio, perché non vuole prendere la medicina, ad esempio, o nella crudeltà insensata e ambigua dell’Omino di burro, o nella descrizione dell’orribile metamorfosi asinina, per poi ritornare a scorrere sotterranea. A ricordarci, come scriveva Kafka, che «non esistono fiabe non cruente», perché nonostante i lustrini e le fate, e gli happy end, «tutte le fiabe provengono dalla profondità del sangue e dell’angoscia». Collodi lo sapeva, e ha fatto finta di dimenticarselo, ma questo non gli ha impedito di scrivere quel capolavoro che rimane il libro della nostra vita.

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