Gianni Cerasuolo
La morte di un mito (non solo sportivo)

Ode a Johan Cruijff

Il romanzo malinconico di un campione ribelle dalla povertà in Olanda al trionfo a Barcellona. Ritratto di Johan Cruijff, il calciatore che Michelangelo avrebbe dipinto nella Cappella Sisitina

Non bisognerebbe scriverne, andrebbe soltanto guardato. È come scrivere della Cappella Sistina, invece di mettersi con il naso all’insù e contemplare. Iddio dell’Universo creò Adamo. Iddio del calcio creò Johan Cruijff, brutto, magrolino, con i piedi a papera, sgraziato come quell’altro, Maradona. Dovesse ridipingerla oggi, Michelangelo potrebbe metterci loro: Schiaffino, Di Stefano, Pelé, Maradona, Cruijff. I più grandi, gli imprevedibili, i rivoluzionari.

Perché l’olandese con il caschetto di capelli, il John Lennon di Amsterdam, quella maglia con un numero assurdo e mai visto prima di allora, il 14, questo è stato: un anarchico e un ribelle. Sempre, dentro e fuori dal campo. Sempre, da calciatore e da allenatore. Antipatico e sfrontato. In quella Cappella rinnovata, Maradona e Pelé finirebbero nell’alto dei cieli della popolarità, lui avrebbe qualche difficoltà. Sebbene, quando comparve, tutti strabuzzammo gli occhi. Era la banda dell’Ajax di quegli anni, la squadra dei lancieri, la squadra del ghetto, tifosi e calciatori deportati dai nazisti, trent’anni prima. E ce ne innamorammo tutti, del calcio totale, di giovanottoni con i capelli lunghi e canne a gogo, quelli che si portavano mogli e fidanzate nei ritiri come si trattasse di una comunità hippy, quelli che indossavano una casacca bianca con al centro un rettangolo vistoso di rosso. Si chiamavano Haan, Suurbier, Neeskens, Cruijff, Rep, Krol (a Napoli gli antiabortisti arrivarono a dire: «Tifosi! Pensate se la mamma di Krol avesse abortito…»). L’Ajax, certo, e poi l’Olanda, l’Arancia meccanica, i tulipani, i Mondiali del ’74.

Johan-Cruijff

La genesi: 28 maggio 1969. Uno stadio: il Bernabeu di Madrid. Un risultato: Milan batte Ajax 4-1. Un protagonista: Pierino Prati, tre gol. Dietro il Milan aveva una specie di linea Maginot, Rocco aveva messo Malatrasi, Anquilletti, Rosato, Schnellinger, Trapattoni. Lodetti che si faceva il mazzo a centrocampo e lì davanti Rivera, Hamrin, Sormani e Prati. Mario Sconcerti ha sintetizzato così nel suo Storia del gol (Mondadori): «Dall’altra parte c’era una squadra appena nata attorno ad un ragazzo di 22 anni dal ruolo ibrido, Johan Cruijff. Sembravano seri e fragili, gli olandesi. Un buon calcio votato a essere inghiottito quasi per tradizione dal lusso borghese del Milan. Questo era lo slogan che trovò poi conferma sul campo. Era invece uno scambio di consegne».

Nacque così il mito: quei giovani ribaltarono il concetto del gioco. Tutti correvano ma tutti sapevano dove andare. «Non ci sono individualità, ci sono movimenti… è un calcio quasi militare che come spesso capita ai grandi generali, esalta prima di tutto i soldati. Una libertà di movimenti guidati che danno l’impressione ai giocatori di essere padroni di se stessi. In realtà giocano gli uni per gli altri. Fondamentale è la parte atletica, fondamentale è la disciplina. Ma più di tutti conta la fantasia automatizzata dell’Ajax. Non c’è qualcosa di più profondo che abbia cambiato il calcio moderno. Non c’è stato lo spostamento di un uomo, è stato cambiato l’intero modo di concepire il gioco. Quindi anche il gol», concludeva Sconcerti.

Johan Cruijff2E lui era lì, ispiratore e utilizzatore finale: Johan Cruijff , adolescenza difficile e di sacrifici, il padre morto presto, la madre costretta a vendersi la piccola casa e il negozio di verdure, poi donna delle pulizie allo stadio dell’Ajax. Johan, chiamato in tanti modi da quelli che se ne intendevano: Pelé bianco da Brera, il Profeta del gol da Ciotti (che gli dedicò anche un film-documentario), il Papero d’oro, l’olandese volante, con poca fantasia, dai tifosi del Barcellona dopo quel gol incredibile contro l’Atletico Madrid che adesso impazza in Rete: lui che si avvita in aria e con il tacco destro manda la palla dentro la porta. A lui hanno dedicato anche un corpo celeste, il planetoide 14282 porta il suo nome: Cruijff (o Cruyff se proprio volete semplificare).

Barcellona ad un certo punto è diventata la sua casa e la Catalogna la sua patria. È morto lì, a fine aprile avrebbe compiuto 69 anni. Aveva un cuore matto e un po’ di bypass ma ad ucciderlo sono stati i polmoni, aggrediti da un tumore, che hanno respirato tante sigarette: «Nella mia vita ho avuto solo due vizi: uno, il calcio, mi ha dato tutto, l’altro, il fumo, stava per togliermelo» recitava in uno spot antifumo quando si decise a smettere. E in quella scelta, Barcellona e la Catalogna, molti lessero un altro segnale del suo ribellismo e della sua voglia di libertà. Non volle andare al Real Madrid, era la squadra di Franco, lui arrivò addirittura a minacciare l’Ajax di non giocare più se non l’avessero ceduto ai blaugrana. Ed ha chiamato un figlio Jordi, come il patrono.

Johan Cruijff4Forse gli piaceva quella tradizione che vuole, il 23 aprile, che si regalino un libro e una rosa. Quando arrivò, il Barça era depresso. Lui lo prese per mano e lo portò in alto. Come ha fatto una volta che si sedette in panchina. Perché a differenza degli altri dei del calcio, di Maradona innanzitutto, Cruijff è stato un grandissimo anche da allenatore. C’è rimasto otto anni a dirigere Guardiola, Koeman, Begiristain, Laudrup e compagnia bella: la bacheca del club catalano si arricchì di quattro scudetti consecutivi nella Liga, una Coppa del re, una Coppa delle Coppe e della prima Coppa dei Campioni (contro la Samp di Vialli e Mancini). Guardiola allenatore ha preso tutto, o quasi, da lui.

Ma non aveva un carattere facile, Hendrik Johannes Cruijff. Anche gli ultimi anni di dirigente all’Ajax sono trascorsi tra baruffe e litigi. Si parlò di litigi anche nell’Olanda del 1978, quella che partecipò ai Mondiali di Argentina, perdendo la seconda finale consecutiva. Lui non c’era. Non partì mai dall’Europa. Gli argentini, quelli che stavano contro la dittatura, sperarono che quell’assenza avesse un significato, fosse un gesto contro Videla. Lo credettero a lungo. Ma non fu così. Trent’anni dopo Cruijff rivelò: «Non ci andai perché la mia famiglia subì un rapimento e da lì in poi la mia visione della vita cambiò completamente». Probabile che avesse ricevuto anche delle minacce: il “consiglio” era di non muoversi dalla Spagna. Forse fu l’unica volta che Johan abbassò il capo.

Facebooktwitterlinkedin